Danilo Cargnello

DAL NATURALISMO PSICOANALITICO ALLA FENOMENOLOGIA ANTROPOLOGICA DELLA DASEINSANALYSE

DA FREUD A BINSWANGER

I due termini del titolo si riferiscono alla psicoanalisi (Psychoanalyse) di Sigmund Freud ed all'analisi antropologico-fenomenologica o, più semplicemente, antropoanalisi (Daseinsanalyse) di Ludwig Binswanger. Ma a tutto pensi chi si accinge a leggere il presente scritto meno che si tratti di due indirizzi che si inscrivono in una reciproca ed insanabile contrapposizione, e meno ancora che il secondo sia una specie di contraltare del primo. Occorre dir subito che mentre la psicoanalisi è soprattutto un metodo di psicoterapia ed ha dunque per scopo fondamentale la «salute» dei trattati, l'antropoanalisi invece ha precipuamente lo scopo di approfondire l'essenza fenomenologica e antropologica dei sintomi, delle sindromi e dei quadri della psicopatologia e della clinica psichiatrica (senza per questo precludersi eventuali sviluppi verso una metodologia terapeutica che la sua stessa apertura verso l'«umano» sembra additare ).

Nell'opera di Binswanger (che per molti anni esercitò la psicoanalisi nel modo più ortodosso) i riferimenti espliciti a Freud sono quanto mai numerosi, si ritrovano in quasi tutti i suoi scritti; ed anche in quelli ove esplicitamente non appaiono, la sua presenza si avverte di continuo, come per uno spontaneo ed inevitabile, anche se sottaciuto, richiamo. Freud ebbe invero un peso determinante nella formazione di Binswanger. (A testimonianza di quanto profondi e fecondi siano stati i legami tra i due, basti citare il seguente passo, tratto da una lettera che B. scrisse alla vedova ed alla figlia in occasione della morte di F.: «Loro sanno che non è stato soltanto il lavoro scientifico e la genialità dello scomparso a legarmi, e neppure il fatto ch'egli ha influenzato in modo decisivo tutta la mia carriera di studioso. Assai più di ciò fa la profonda impressione che per decenni esercitarono su di me la grandezza e l'indomabile forza spirituale e morale della sua personalità. Il tutto poi era sorretto dall'affezione profonda che gli portavo...» (Da: Erinnerungen an Sigmund Freud, p. 118). Il carteggio che si svolse tra i due per un trentennio (1908-1938), comprende ben 101 lettere di Freud, le più significative delle quali sono pubblicate nell'operetta succitata. )

Tra l'uno e l'altro però intercorreva il ventennio di una generazione; e la storia della scienza (come in genere la storia) non ha remore, non tollera cristallizzazioni nel suo dispiegarsi; di epoca in epoca si testimonia sempre altrimenti (in questo «altrimenti» consistendo la sua stessa vita) colla e nella voce dei suoi maggiori protagonisti.

Del resto l'antropoanalisi (Come all'inizio, anche in quel che segue tradurremo spesso il termine di Daseinsanalyse con quello di Antropoanalisi, anche se più estensivo e meno specifico. Infatti l'analisi del Dasein, dell'esserci, della presenza non può essere che antropologica; d'altro canto, un'analisi antropologica, che sia perfettamente consapevole del suo tema principale (e cioè l’umanità dell’uomo, l’essere-uomo), non può che essere fenomenologica. Talora qualcuno dei meno avvertiti è riluttante ad accettare il termine di antropologia in questa accezione. Ciò è forse dovuto al fatto che l'orientamento culturale di fine secolo -che in Italia ha denominato e domina tuttora gli studi medico-psichiatrici - ha sempre inteso il detto termine nell'accezione, incredibilmente angusta, di anatomia antropologica. E' stato Binswanger stesso, in un breve scritto occasionale in lingua francese, a suggerire la versione di «Daseinsanalyse» in «Antropologia fenomenologica» «Analisi antropo-fenomenologica»), scartando senz'altro quella di «Analisi esistenziale», foriera di molteplici fraintendimenti e, tra l'altro, impiegata anche per altri indirizzi che ben poco hanno in comune con l'indirizzo in discorso) non è in opposizione con alcuna teoria ; è prima di qualsiasi teorizzazione discorsiva nel piano di questa o di quella ipotesi di lavoro; riconosce come valido per il suo metodo un solo principio teorico e cioè di essere, appunto, ateoretica (Die Daseinsanalyse ist theoretisch theorienlos). Essa è nata, si potrebbe dire, soprattutto dal profondo bisogno del suo instauratore di approfondire il significato e la validità del comprendere in psicopatologia, di fare — per cosi dire — pulizia in quel cumulo caotico di indirizzi, di nozioni e di dati fattuali che costituiscono l'alienistica: ove vengono a trovarsi l'uno accanto all'altro o, peggio, l'uno sopra l'altro senza che alcuna omogeneità leciti il loro affianca- mento o la loro sovrapposizione, insomma senza che un principio ordinativo li moderi.

Binswanger (a cui noi alienisti siamo debitori di inobliabili analisi di concreti casi clinici e anche di particolari manifestazioni dell'alienità, e che proprio nell'approfondimento della singolarità — dell'umanità, dunque — di singoli casi è riuscito a dirci le cose più profonde) scrive: «Tra i tanto numerosi e interessanti problemi della psichiatria, per me il più interessante, anzi il più impellente è stato sempre quello della psichiatria stessa». Il suo pensiero d'altra parte si è costruito di fronte alle teorie psichiatriche, in particolare di fronte alla teoria psicoanalitica. E' doveroso dir subito che dal freudismo inteso, piuttosto che come teoria, come pratica analitica, egli ha attinto le sollecitazioni massime.

Ciò preliminarmente detto, per raggiungere delle conclusioni sufficientemente chiare occorre: primo, che noi riconosciamo da quali profonde polle della cultura europea siano sorte successivamente e la psicoanalisi e l'antropoanalisi; secondo, che indichiamo quali imprescindibili esigenze abbiano determinato la trasformazione dell'una nell'altra (il che è quanto dire come la fenomenologia antropologica sia entrata a piene vele nel campo degli studi alienistici, con piena consapevolezza del suo metodo e dei suoi assunti).

Questi problemi di fondo sono stati affrontati da Binswanger stesso in una delle sue più note relazioni; e precisamente proprio in quella ch'egli ebbe occasione di leggere il 7 maggio 1936 a Vienna, in occasione dell'ottantesimo compleanno di Freud.

La suddetta relazione è estremamente importante giacché in essa il relatore «non solo lumeggiava la dottrina di Freud nelle sue intime necessità medico-psicologiche» (e pertanto naturalistiche), ma soprattutto ne indicava «la specifica limitatezza nei confronti dell'umano».

Si chiedeva Binswanger quale mai era l'uomo di Freud. E rispondeva: è l’homo natura. Aver additato questa concezione dell'umano, prima di lui ignota o negletta, è stato un grande merito del creatore della psicoanalisi, che difese poi ad oltranza questa sua idea-base con quella forza e con quell'indomabile convincimento che tutti sanno.

Singolare e non senza significato come questo freudiano homo natura sia apparso in piena luce così tardi nella storia della cultura, dopo che per secoli e secoli il pensiero teologico aveva imposto la concezione dell’homo aeternus aut caelestis e il pensiero filosofico, ormai nella pienezza dei tempi, quella dell'homo universalis, di cui Leonardo e Goethe furono espressioni massime.

In un incontro a Vienna nel settembre del 1927 — che Binswanger ha rievocato come estremamente indicativo — Freud ebbe a dirgli: «L'umanità è stata fin troppo informata di avere lo spirito; dovevo pur mostrarle ch'essa ha anche degli istinti!». Per Freud però questa istintualità è l'autentica realtà psichica; il resto è epifenomenico camuffamento. E' nella libido che bisogna cercare la Wahrhaftigkeit dell'uomo, la sua veridicità (la sua sincerità, la sua genuinità). Il suo metodo infatti non è che una tecnica di smascheramento (Entlarvungstechnik) di che cosa sia «realmente» l'uomo. Questo smascheramento porta invariabilmente Freud alla conclusione che l'uomo è la sua natura, quella natura che la società in cui l'individuo vive condanna come male. Benché la naturalità dell'uomo di per se stessa sia prima della morale (ed in questo senso, amorale), diventa condannabile come colpa, peccato, ecc., proprio nello scontro colla società. Il «male» dunque è per Freud il positivo, il «bene» è la maschera che la società esige dall'individuo per dargli il consenso di venir accolto nel suo seno. Ora, l'homo natura di Freud non è un uomo reale, è un'idea, una particolare concezione dell'uomo; è il risultato di un ripensamento secondario e riduttivo dell'essere-uomo. Uno dei punti deboli della dottrina freudiana è appunto questo: di aver ritenuto questa idea, in definitiva astratta, come la realtà stessa dell'uomo. Infatti, colla naturalità umana così postulata noi non ci scontriamo direttamente mai; per raggiungerla bisogna tradurre la storia dell'uomo in «storia» naturale (poniamo tra virgolette la parola storia, perché evidentemente se la natura condiziona la storia, non può certo farla). «L'idea dell'homo natura di Freud è una costruzione scientifica, possibile soltanto sulla base di una preliminare distruzione della globale esperienza interumana, cioè coi suoi simili, cioè della sua esperienza antropologica». E' questa nozione dell'uomo come «naturalis», che è stata anzitutto tema della critica antropologica, che vi ha opposto quella di homo existentialis.

E' compito appunto dell'antropologia di ridare all'uomo le sue autentiche dimensioni e di reintegrarlo nella sua interezza; di riconoscere ch'egli è ben più e ben altro del meccanismo ipoteticamente postulato che lo sottende; di additare quali siano le forme fondamentali con cui si pone e si propone come umana presenza (menschliches Dasein); di sostituire alla «concezione» dell'homo natura la «fenomenicità» originaria del suo essere-nel-mondo ; in breve, di indicarlo quale e come propriamente egli è, cioè appunto come homo existentia. («L'essere della presenza è la sua esistenza» (Heidegger).)

II

Cerchiamo di vedere anzitutto su quali basi ed in quale clima culturale Freud abbia edificata la sua teoria, lasciando dapprima impregiudicata la questione (sulla quale ritorneremo più volte) se la sua opera, la psicoanalisi, si conchiuda nei propri limiti teoretici o se invece «in pratica» li sorpassi più o meno largamente. Cerchiamo, in una parola, di riconoscere come sia sorta la sua idea fondamentale, cioè l'idea dell’uomo come homo natura.

Freud era medico. Le sue ricerche iniziali furono schiettamente neuroistologiche su animali inferiori (tanto che all'inizio era in forse se dedicarsi del tutto alla zoologia), poi neurologiche e psichiatriche nel senso più schiettamente clinico. Solo nel 1891 comparve un'operetta di sessantatre pagine sulle afasie (Zur Auffassung der Aphasien), ch'era come il preannuncio della sua concezione dinamico-funzionale della psiche. Lo psicoanalista, quale noi propriamente conosciamo, si propose molto dopo. E' per tanto giusto riferirsi al clima culturale della neuroistologia e soprattutto della neuropsichiatria clinica (a cui egli dedicò ben ventotto lavori) della sua giovinezza.

Il postulato di GRIESINGER (il padre dell'alienistica tedesca ed anche europea, quale anche oggi comunemente si intende) per cui le «malattie mentali sono malattie del cervello», era diventato nella mente dei grane clinici dell'epoca fideismo anatomoclinico. Basti in proposito qui menzionare due grandi nomi, quello di Meynert e quello di Wernicke, a cui Freud guardò come a maestri.

Per MEYNERT, che fu diretto maestro di Freud, il cervello non era che una grandiosa centrale di stimoli e controstimoli, di sollecitazioni e di inibizioni, generate e tenute in essere dal contatto sensoriale col mondo esterno, un organismo al quale si adattava puntualmente il paragone con una immensa ameba i cui pseudopodi (gli organi sensoriali!) si protendevano sulle cose del mondo esterno per afferrarle pronte a ritrarsene secondo la necessità e l'opportunità. La psiche non era che l'epifenomeno di questo intricatissimo gioco, e ne derivava passivamente; nessuna scelta, nessuna autonomia era a questa concessa, tutto era in lei determinato dall'anatomia che la sottendeva. Per Meynert la psicologia e la psichiatria non potevano dirsi scientifiche se non nella misura in cui potevano esplicitare in senso anatomo-fisiologico fenomeni psichici e, rispettivamente, psicopatologici. Come si vede, il problema fondamentale era per lui quello causale; ed anche quando parlava di «apparato spirituale» intendeva riferirsi (ovviamente ipotetizzando) alle strutture anatomiche a questo preposte e che lo sottendevano. Il principio topografico era per Meynert determinante: non era la persona, ma il cervello che con determinate aree pensava, con altre sentiva, con altre ancora ricordava, eccetera. Questa concezione intransigentemente topografica (ai nostri occhi di moderni, così ingenua) dello psichico, non certo accolta nella sua assolutezza da Freud; però ebbe non poco peso nella formulazione di qualcuno dei suoi postulati teoretici (specie più antichi), come si dirà tra poco.

L'indirizzo di Meynert trovò poi in WERNICKE (che gli fu allievo) il suo più grande illustratore, colui che, con le grandi scoperte anatomocliniche che tutti sanno, sembrò testimoniarne per sempre la validità. E così da Griesinger a Meynert, da Meynert a Wernicke, da Wernicke a Liepmann, da Liepmann a Kleist, da Kleist ai vari epigoni, noi ritroviamo anche attualmente ben vivo questo indirizzo: che, se in Griesinger era stato additato con un geniale atteggiamento autocritico (che ancor oggigiorno sorprende), via via, da generazione a generazione di studiosi divenne sempre più rigido, fino a colorirsi di intransigenza.

La psichiatria anatomica di Meynert si precisò in Wernicke come anatomia clinica delle funzioni cerebrali. Egli ed i suoi allievi si proposero di risolvere tutta la psichiatria nella neuropatologia delle funzioni; ritenevano anzi che l'alienistica contemporanea null'altro fosse se non un coacervo di formulazioni provvisorie ed effimere da sostituirsi pian piano con altre, finalmente, secondo loro, davvero scientifiche, di carattere anatomo-funzionale.

Anche questo orientamento biologico-funzionalistico non fu certo estraneo allo spirito teoretizzatore di Freud quando scriveva: «L'insufficienza delle nostre descrizioni con tutta probabilità scomparirebbe, se in luogo dei termini psicologici noi cominciassimo ad impiegare dei termini fisiologici e chimici» (G.W., XIII, 65).

La scoperta della «sede anatomica» dell'afasia sensoriale (per non dire che di questa) pareva giustificare in pieno questi grandiosi progetti. Wernicke, come ben dice Binswanger, «fece dello psichico un oggetto neuropatologico»; o, meglio, lo reificò come espressione o disturbo di funzione. Con lui però, assai più che in Meynert, fu sottolineato il carattere dinamico della manifestazione psichica o psicopatologica. In Wernicke la psiche e la malattia mentale vennero ad intendersi così, proprio per il neurologismo radicale che egli sposò, un mosaico di tratti o di sintomi; la malattia mentale, in particolare, divenne l'insieme delle modificazioni psichiche derivanti dal disturbo di una funzione nervosa fondamentalmente colpita (da cui: malattie dell'ideazione, dell'intelligenza, dell'affettività, della memoria, financo della volontà, eccetera): l'indagine clinica si avviò con lui decisamente all'analisi delle funzioni prese una per una, accettando come assolutamente valida ed adeguata alla realtà quella scomposizione della globalità psichica che invece non era che un'ipotesi di lavoro. Che poi Wernicke clinico sia stato di più e altro dalla sua teoria, è fuori dubbio. Anche altri alienisti, e tra i sommi, soggiacquero a questa discordanza tra se stessi come teorici e se stessi come clinici (basti in proposito pensare a Bleuler, o, come vedremo in questo scritto, allo stesso Freud).(«Come non si può demolire Bleuler criticando semplicemente il suo concetto di associazione, perché in verità egli ha visto molto di più — scriveva Binswanger — di ciò che il concetto possa esprimere e rappresentare, così non si può abbattere Freud attenendosi alla mera lettera del suo insegnamento». (Geschehnis und Erlebnis, V.u. A., II, p. 166).).

Un altro nome che non va omesso di ricordare, anche se forse meno spesso ricorre negli scritti di Freud, è quello di Hughlings JACKSON.17 Non ha forse questo insigne

dottrinario della neuropsichiatria postulato quelle nozioni di evoluzione e di dissoluzione delle funzioni che sono una specie di modello (mutatis mutandis, s'intende) delle nozioni freudiane di evoluzione e di regressione della libido? Diceva Jackson che le funzioni evolvono dalle inferiori, più semplici automatiche e organizzate, a quelle superiori, più complesse volontarie e meno organizzate. Da questa premessa egli traeva la conclusione che la malattia mentale era una dissoluzione disarmonica dalle funzioni superiori alle funzioni inferiori, che — per essere più fortemente organizzate — sono le più valide e capaci di resistere al nocumento morboso e quindi di mantenersi in essere, anche quando le altre, le superiori, si sono più o meno integralmente dissolte. Non è chi non veda le analogie con l'opposizione che fa Freud tra Es ed Ich, tra la «forza» del primo e la relativa «fragilità» dell'altro. Analogie che diventano ancor più palmari, quando si ponga mente ad un'altra formulazione jacksoniana: e cioè, che le funzioni che subiscono una dissoluzione finiscono per integrarsi ad un livello più basso dell'apparato neuropsichico, un livello rappresentante sia pur disarmonicamente uno stadio già sorpassato dell'evoluzione funzionale. Il pensiero corre a più punti della dottrina freudiana: alla fissazione, alla regressione e financo alla rimozione! Si aggiunga che in Jackson il carattere dinamico delle funzioni psichiche è ancora più sottolineato che in Wernicke.

Ed eccoci a Freud. Freud parla anch'egli di «organismo psichico», anche se non si esprime più esplicitamente in termini anatomici. Però gli influssi meynertiani e wernickiani sono lo stesso evidenti. Le manifestazioni psichiche sono pur sempre da riferirsi ad un «organismo», ad un «organo», ad un «apparato psichico», ben materiato anche se non ben esplicitato nella sua materialità; esse sono considerate sempre come epifenomeni di questo.

Non saranno più le «funzioni» di Wernicke gli «elementi» ultimi che costituiscono, colla loro azione, interazione ed integrazione, l'attività cerebrale. Ma, al pari di Wernicke, anche in Freud c'è la definizione degli ultimi, primordiali ed ulteriormente irriducibili «elementi» che compongono quell'apparato psichico sui generis ch'egli postula. Questi «elementi ultimi», queste quintessenze dello psichico, queste istanze che segnano l'impercettibile trapasso tra il corpo e la mente, indefinibili nella loro essenza, mitici («... nell'istinto di Freud si nasconde quel diavoletto metafisico che per gli psichiatri si aggira e si agita nella corteccia cerebrale» (!) (Psychoanalyse lind, Klini-sche Psychiatrie, V. u. A., II, p. 54) quasi (come Freud ebbe ad esprimersi in un passo famoso) per la loro inafferrabilità ed ineffabilità, per l'impossibilità di ricondurli ad una definizione adeguata, di racchiuderli in termini razionali, e pur onnipresenti ed onnideterminanti, sono gli istinti (Triebe).

Le stesse funzioni di Wernicke — le funzioni del neurologismo anatomo-clinico — passano in second'ordine di fronte a queste primordiali pulsioni, in quanto sono esse a metterle ed a tenerle in moto, a moderarle e, soprattutto, ad indirizzarle.

L'organismo psichico contiene un'indomabile forza di natura: l'istintualità che lo sorregge, e cioè la libido. E' difficile dire che mai sia questa «forza di natura». Con Binswanger, possiamo intanto «con certezza affermare ch'essa non è affatto un alcunché di psicologico e neanche di ben definito in termini di fisiologia». Al limite tra lo psichico ed il fisico è da indicarsi semplicemente come una tendenza che — ora esprimendosi come pulsione di vita (Lebenstrieb), ora come pulsione di morte {Todestrieb) — sottende ogni accadimento biologico fondamentale, rispettivamente sollecitando ogni moto evolutivo assimilativo e costruttivo, oppure ogni moto dissolutivo regressivo e distruttivo. Essa è volta sempre e comunque al raggiungimento del piacere o ad evitare la sofferenza (principio del piacere - Lustprinzip) (anche la pulsione di morte infatti, indirizzando verso la pace radicale dell'inorganico, è al servizio del principio del piacere: verso il piacere sui generis del non soffrire più).

Dunque il desiderare, il tendere, ecc. della libido al suo soddisfacimento è l'unica direzione significativa (Bedentungsrichtung) che Freud riconosce all'essere-uomo. Egli così lo riduce alla sola categoria dell'edonismo.

La libido non dice mai direttamente di sé, ma solo nel suo dispiegarsi e posarsi su di un «oggetto», primo tra tutti il corpo stesso: ed allora «si esprime» — appunto somatologicamente, anzi, somatograficamente — coll'espressività di quelle zone (zone erogene) in cui trova, in un determinato stadio della sua evoluzione, il suo soddisfacimento o, meglio, la possibilità del suo soddisfacimento.

Malgrado il suo particolare linguaggio ed alcune importantissime differenze di cui diremo più avanti, la teoria di Freud è dunque un naturalismo (vitale-libidico) del tutto paragonabile al naturalismo di Meynert (anatomico) e a quello di Wernicke (funzionalistico). Come in questi, la psiche è intesa sempre come epifenomeno, come manifestazione dell'attività dell'organismo che la sottende.

Con queste basi di partenza Freud voleva ed intese, più o meno consapevolmente, allineare la psicologia e la psicopatologia nella serie delle scienze della natura. Fare della psiche — sana o malata — un «oggetto» di indagine scientifica, significava e significa portare preminentissimamente l'attenzione al problema causale e genetico, questo essendo il tra guardo supremo di ogni scienza naturalistica, per la quale è importante non tanto indicare in che cosa, ad esempio, consista la roseità della rosa, ma da che cosa si generi e attraverso quali fasi si sviluppi quel dato che si pone all'osservatore come rosa, «da che cosa» provenga un fenomeno piuttosto che penetrare la qualità fenomenica del fenomeno stesso, cioè la sua fenomenicità, il suo «come».

(Sia qui subito rilevato tra parentesi che mentre il principio del piacere, cardinale nella psicoanalisi, è eminentemente teleologico, in quanto si riferisce sempre ad un «verso dove», il principio di causalità invece parla del «da dove». Oltre alle profonde antinomie che, come vedremo, si possono rilevare tra la teoria e la prassi della psicoanalisi, come si vede antitesi profonde si possono indicare anche tra gli enunciati fondamentali della sua stessa base teoretica).

«Nell'unilateralità grandiosamente consequenziale (di Freud) di considerare l'umano soltanto in un settore del suo essere e di partire da uno solo dei suoi aspetti categoriali, cioè dalla sua 'naturalità'... il pensiero freudiano si incontra colla psichiatria classica» — scrive Binswangen Il creatore della psicoanalisi in questo fu fedele ai suoi maestri ed alle esperienze giovanili di neuroistologo e di neurologo, nell'accettazione convintissima della validità delle tesi naturalistiche: che su questa base egli abbia poi costruito un gigantesco e originalissimo edificio, in cui spesso è difficile riconoscere ancora la struttura di partenza, è poi un altro discorso.

Anche altre concezioni dell'epoca, pur provenienti da altri ambiti culturali, influenzarono Freud nella formulazione della sua teoria.

La fisica coeva (soprattutto attraverso la mediazione della psico-fisica di FECHNER) gli insegnò a concepire la libido in senso quantitativo-energetico: essa è un'energia che si trasforma e si ritrasforma nelle sue varie manifestazioni, ma che non si perde. Ciò, per esempio, che della carica libidica non riesce ad investire un oggetto, si rivolge ad altro oggetto, magari rientra nel soggetto, oppure ancora resta sospesa (ed insoddisfatta): ma non si perde. (Per esempio, la nozione freudiana di dislocazione si riporta puntualmente a questo concetto!). Essa obbedisce al principio economico (Freud arriva a parlare di «economia domestica della psiche»!) della conservazione dell'energia. La persona viene così trasformata in un serbatoio di forze: la considerazione quantitativa (che per la sfera psichica ha sempre e soltanto un valore rappresentativo e metaforico) finisce così per lasciar da parte la stessa considerazione dei contenuti nella loro intrinseca modalità.

Un altro principio ancora Freud derivò dalla fisica (e forse da Jackson, per non dire dal pensiero di HERBART (Sarebbe davvero interessante che qualcuno, in Italia, si occupasse di approfondire i rapporti che intercedono tra la filosofia di HERBART (in particolare: Psychologie als Wissenschaft, etc., 1824-1825) e la psicoanalisi di Freud. Nella filosofia herbartiana infatti si ritrovano non poche formulazioni che, per tanti versi, sembra che il pensiero freudiano riecheggi. Per esemplificare: il riconoscimento dell'angustia dell'ambito di coscienza; il concetto di soglia di coscienza; la concezione della vita rappresentativa come un'interazione di forze che obbediscono ad una loro dinamica, variamente impastandosi e disimpastandosi (dinamica e conflittualità delle rappresentazioni); la modalità con cui le diverse masse di rappresentazioni si attraggono e si respingono; la deviazione nel sogno delle masse di rappresentazioni respinte; eccetera.

): la libido è una forza, è concepita come sempre in atto di dispiegarsi dinamicamente, in un verso o nell'altro, antiteticamente o sinergicamente ad altre forze (forza dell'Es, forza dell'Io, forza del Super-Io). Essa in breve, obbedisce, come le forze della fisica, al principio dinamico: il moto, il muoversi è la sua stessa vita.

E ancora un'altro indirizzo Freud mutuò dalle idee del suo tempo, e cioè quello di dare una descrizione topologica dei fenomeni psichici. Nessuno afferma che il Super-Io che «sta sopra» all'Io, e l'Io che «sta sopra» all'Es non siano altro che espressioni topologiche e non designazioni topografiche; e così dicasi di dizioni come quella di analisi del «profondo», per indicare l'analisi dell'inconscio. Ma è indubbio che queste topologizzazioni dei «fatti» psichici traducono facilmente le premesse positivistico-naturalistiche ed anatomo-fisiologiche da cui partì la teoria freudiana. (Il linguaggio, questo infallibile rivelatore dell'essenzialità delle cose, non smentisce la sua magistrale saggezza neanche a questo proposito).

Dal neurologismo wernickiano e dalla fisica del suo tempo, Freud, sempre come teorico, mutuò inoltre la propensione per una concezione meccanica della vita psichica. Basti qui ricordare: i «meccanismi» della sublimazione e della rimozione, quello dell'introiezione e della proiezione, quello della censura e, soprattutto, della ripetizione. Le manifestazioni psicopatologiche altro non sono in definitiva, per lui, se non la ripetizione, sia pure camuffata, di antiche situazioni di fronte alle quali il dinamismo della libido si è impuntato e non ha potuto procedere del tutto oltre nella sua evoluzione. Decisivo infatti è per la psicoanalisi il rilievo di ciò che resta «fondamentalmente» uguale nelle varie trasformazioni di un'esistenza.

Ai principi economico, dinamico, topologico e meccanico, a cui si ispirarla teoria psicoanalitica, va aggiunto il gusto per il rilievo dei rapporti psico-fisici (ancora Fechner!): lo psichico si converte nel somatico ed il somatico nello psichico, con alterno gioco, ferme restando le equivalenze dinamico-energetiche tanto quando la libido si esprime col «corpo» o invece colla «mente». E' così netta questa inclinazione interpretativa della psicoanalisi, che la dottrina, ove sia vista con occhio distaccato, può apparire non solo una somatologia, ma spesso addirittura una somatografia dell'umano esistere.

Ma è soprattutto un ultimo punto della teoria freudiana che qui conviene sottolineare, giacché è su questo in ispecie che si appunta la critica dell'antropologia fenomenologica moderna: e cioè, la decisa oggettivazione del soggettivo. Il soggetto infatti è «oggetto» di analisi come gli altri «oggetti» del mondo, inclusi tra questi, anzi in proscenio, gli altri

uomini con cui il soggetto si incontra o si scontra. Non può del resto esser diversamente in una dottrina, come quella psico-analitica, che ex professo si dichiara naturalistica. L'Io (derivato dalla libido!) è l'Io di Tizio, di Cajo, di Sempronio, come si potrebbe dire il cuore, lo stomaco, la mano, ecc. di Tizio, di Cajo o Sempronio. L'apparato psichico «ha» un Ego, come «ha» un Es ed un Super-Ego, che di questo «apparato», di questo «organismo» sono funzioni. La spersonalizzazione nella psicoanalisi teoretica (al pari del resto che nella psichiatria classica) arriva fino al punto di non dire più Io, Tu, Egli, ecc. o me, te, sé, ma il «suo Io», il «suo Lui» ecc., reificando i pronomi in funzioni.

«Se per esempio, si dice: 'io affermo', 'tu inclini a credere', 'noi siamo d'accordo', ecc. ecc., è indubbio che la presenza che 'afferma', 'inclina a credere', 'è d'accordo', ecc. ecc., è rispettivamente la mia, la tua, la nostra presenza». Ma, seguita Binswanger, oltre che «di una presenza come mia, tua, sua, nostra, ecc., si parla qui anche di comunicazione interumana, cioè di un rapporto duale o plurale di una persona con un suo simile o con dei suoi simili. Nel momento stesso però che si mette tra parentesi questo 'mio', questo 'tuo' o questo 'nostro', questo 'io' o questo 'tu' o questo 'noi' la psicologia diventa impersonale ed «obbiettiva»: perdendo così il carattere di vera psicologia per diventare scienza della natura ”.

III

Si è detto nelle pagine precedenti che il naturalismo teorico della psicoanalisi in via di massima si adegua, nei suoi principi, al naturalismo della neuropsichiatria classica, ed in ispecie della neuropsichiatria coeva all'epoca in cui nacque. Al pari di questa il freudismo dottrinario sembra accettare in pieno la validità metodologica di scomporre lo psichico nei suoi (presunti) elementi per poi ricostruirlo in base a certi postulati di biologia teoretica assunti come veridici. Ma in pratica la psicoanalisi si adegua davvero a questa impostazione «scompositiva» e «riduttiva» di base? Riesce sempre ad autocomprendersi in questo piano teorico?

Non si dimentichi mai — e ci si conceda di ripeterlo ancora — che la psicoanalisi è soprattutto prassi terapeutica; ed è pertanto il terreno del suo impiego ov'è soprattutto lecito giudicarla. Vediamo ora dunque in che cosa la prassi psicoanalitica si discosti e dalla teoria a cui sembra appoggiarsi e dalla psichiatria classica.

Ripercorrendo il lungo cammino che Binswanger ha percorso affaticandosi attorno alla lezione psicoanalitica — un iter che egli stesso ha rievocato in un suo scritto particolarmente significativo (Mein Weg zu Freud) — noi potremo pervenire, al riguardo, a delle conclusioni di notevole rilievo.

Ad un primo periodo di adeguamento incondizionato a Freud e di scrupoloso impiego della sua tecnica (di cui fanno fede diversi suoi scritti di anni ormai lontani23), che lo convinse a riconoscere la validità essenziale degli insegnamenti di colui che egli sempre ritenne come maestro e l'utilità «pratica» del suo metodo, seguì in Binswanger un altro periodo di ripensamento che l'indusse non tanto a porsi in contrasto con Freud e a ripudiarlo come avevano fatto altri, quanto piuttosto a riconoscere l’unilateralità della psicoanalisi nei confronti dell'umano. Questa critica lo portò anzitutto a riconoscere la differenza essenziale che intercede tra il naturalismo teoretico del. freudismo ed il significato che in realtà la psicoanalisi riveste in pratica.

In pratica infatti, il trattamento psicoanalitico «procede dalla personalità senza mai perderne di vista il suo insieme». «In contrasto colla psichiatria del suo tempo, così corriva... a frammentare l'insieme della psiche, Freud, nel fondo della sua esperienza pratica, si è sempre attenuto ad oltranza alla globalità dello psichico, non ha mai inclinato a frammentarla». «La psicoanalisi non suddivide la personalità in funzioni o specificazioni di qualsivoglia genere; essa penetra negli aspetti e nei fattori che più essenzialmente ineriscono all'accadere psichico, preservando però completamente l'unità dell'accadere stesso».

Ma su quali basi mai può lo psicoanalista pratico conservare questa Ganzheit personalistica, con quale criterio ne preserva lungo tutto il trattamento l'indissolubile unità? Nel riconoscere, implicitamente o esplicitamente, che la stessa vita dell'individuo che gli sta di fronte sussiste nella contradditorietà, nell'antinomicità dei suoi aspetti essenziali; nel riconoscere che l'individuo è, potremmo aggiungere, perché è nel conflitto e in questo sussiste. L'accettazione «in pratica» di questo «dato» è gravida di implicanze. Essa infatti ha per diretto corollario che la personalità non è qualche cosa che subisce passivamente gli eventi, che non li incorpora semplicemente come un alcunché che le si aggiunga, ma che li fa suoi, che vi è intenzionalmente rivolta, che in definitiva li elegge o li rifiuta. Quanto diverso Freud in questo dai suoi modelli neurologici (dai Meynert o dai Wernicke), quanto diverso dalla sua teoria meccanico-economico-dinamica! Questa personalità, infatti, è ben distante dal riassumersi in un «organismo» inteso come sede passiva di stimoli e controstimoli o anche come mera riserva di una pulsionalità cieca in cerca di soddisfacimento!

Essa, dunque, tende ad essere «diversamente» da come «naturalmente» è, anche a costo di «autoingannarsi». Che poi questa sua conflittualità, che le inerisce come essenziale, riposi sempre tra due istanze, l'inconscio e la coscienza, di cui la seconda viene ad assumere un ruolo dì netta soggezione di fronte alla prima, talché l'uomo ha ben modeste possibilità di dominio «in casa propria», è un altro discorso che si riporta ancora nel piano della esplicazione teoretica, ma che non intacca affatto l'essenza conflittuale e — per quanto sui generis — dialogica della personalità, quale è assunta da Freud in veste di terapeuta.

Oltre che per la concezione che della personalità ha la psicoanalisi nel suo esercizio pratico, anche per altri aspetti essa in questa veste si discosta dai suoi principi teoretici. I suoi due «più importanti pilastri» (è Freud stesso a dirlo) su cui si fonda sono il transfert (Übertragung) e la resistenza ( Widerstand): due fenomeni che palesemente esulano dalla possibilità di accordarsi con una dottrina meramente meccanicistico-fisicalistico-funzionalistica! Epperò senza transfert e senza resistenza la prassi psicoanalitica sarebbe semplicemente impensabile. Molto bene così scrive in proposito Medard Boss: (Nella pratica psicoanalitica) «domina il transfert e la resistenza» (nella teoria) «l'organo cerebrale coi suoi organi sensoriali... Ora i fenomeni che si designano come transfert e come resistenza sono incontestabilmente, fattualmente, dei fenomeni rivelatori di un rapporto coesistentivo, tra uomo ed uomo. Peraltro né la rappresentazione di atti di coscienza né l'idea di un isolato organo psichico possono corrispondere ad una realtà che si dà immediatamente». Meglio ancora, in proposito, Binswanger stesso: «Quando (Freud) pone l'intera esistenza dell'analista di fronte all'intera esistenza dell'analizzato, egli non è davvero più un naturalista»: è un antropologo.

Per queste ambiguità di atteggiamenti, che oscillano con varia alternanza da un biologismo teoretico sui generis (si pensi, per esempio, alla nozione di organismo psichico) ad aperture francamente antropologiche (si pensi, per esempio, all'«incontro» interumano nel transfert!) molti si son chiesti e si chiedono quale sia la posizione epistemologica della psicoanalisi nella serie delle scienze.

Si è visto come in teoria la psicoanalisi si definisca come scienza naturalistica; si è visto d'altra parte com'essa in pratica su questo piano non riesca più ad autocomprendersi. «La psicoanalisi — scrive BRAUTIGAM — è... per gli uni la tendenza che col difendere la psicogenesi, cioè la dipendenza dal mondo esterno delle malattie mentali come psicosomatiche, rigetta i dati corporali; gli altri poi, rimproverano alla psicoanalisi d'essere racchiusa in un pensiero fin troppo biologistico». E così lo scandalo attorno al nome di Freud continua: ben più profondo, s'intende, dello scandalo che all'inizio egli scatenò portando luce su certi aspetti conturbanti della nostra condizione umana.

Come ognun sa, tutte le scienze, nessuna esclusa, persino le Geisteswissenschaften, includono nel loro metodo l'interpretazione; e ciò proprio per potersi definire tali, giacché la raccolta dei fatti non è ancora scienza, ne è soltanto l'indispensabile premessa. Ogni scienza d'altra parte ha un suo modo di interpretazione che deve formalmente adeguarsi al piano dottrinale ch'essa stessa si è scelta.

Ma per la psicoanalisi è ben difficile rendersi pienamente conto in che cosa consista il suo deuten, il suo interpretare. La Deutung psicoanalitica è un'interpretazione sui generis, molto complessa e soprattutto eterogenea; essa infatti si vale di modalità disparate, ardue a rapportarsi tra di loro per essenziali differenze, e che collabiscono (sembra troppo dire: si integrano) nella strumentalità della prassi psicoterapeutica; comunque è impossibile racchiuderla in una definizione che sia valida per tutti gli aspetti formali in cui essa si dispiega.

Di questo argomento si è occupato particolarmente Binswanger, e non collateralmente, ma insistendovi. Seguiamolo. Egli scrive: «Ciò che Freud chiama deuten (interpretare) racchiude diversi componenti: di volta in volta, atti che si riportano alla diretta esperienza, oppure al giudizio razionale, oppure propriamente al comprendere psicologico». Di proposito lasciamo pure da parte le spiegazioni dinamico-funzionali, in quanto non sembrano essenziali alla pratica terapeutica; esse servono soprattutto a ribadire le premesse dottrinali, a confortarle caso dopo caso, a modificarle e a completarle, secondo una metodica di costruzione teoretica che non trova riscontro forse in nessuna altra scienza, oltre che per le sue peculiarità, per la fede (di cui tutta l'opera di Freud è testimonianza) con cui viene condotta.

Anzitutto l’esperienza diretta coll'analizzato (Un intero e famosissimo saggio analitico di Freud, e precisamente quello sul Mose di Michelangelo, è basato soltanto sui dati raccolti dall'«esperienza diretta» sulla celebre scultura.), cioè a dire la raccolta di quanto si può cogliere di lui e da lui quale immediatamente si presenta: il suo atteggiarsi, il suo comportarsi, il suo esprimersi mimico-gestuale. E' da aggiungere — ed è il più — quanto si può cogliere dalle sue espressioni verbali.

Quest'ultime però informano su qualcos'altro, di decisiva importanza per lo psicoanalista. Infatti esse, oltre a dire direttamente sullo status mentis della persona in esame, racchiudono dei contenuti che nella loro intrinsecità rimandano ad un altro momento del processo conoscitivo. E' questa seconda valenza che soprattutto metterà successivamente in moto lo sforzo d'interpretazione ermeneutica dell'analista e che gli fornirà i primi indici per «l'esplorazione del profondo». Ma è bene qui sottolineare che non è affatto pacifico che la psicoanalisi dia più importanza alla seconda (i contenuti) che alla prima (espressività immediata) delle due valenze informative che ineriscono al linguaggio; tant'è vero che in caso di discordanza o di necessità di scelta tra diverse interpretazioni è il segno indicativo della prima a suggerire la scelta e non quello della seconda! «E' soltanto la percezione diretta dell'esaminato quella che permette di riconoscere quale o quali, tra tutte le possibili interpretazioni ermeneutiche, si adeguino al caso in questione !»

Ciò che si può raccogliere dall'esperienza diretta, non rappresenta per Freud tutto il «materiale euristico» su cui condurre l'interpretazione. Altri dati egualmente «imparziali» (come Freud si esprime) vengono altrimenti raccolti. Per esempio i contenuti che l'analizzato (fortuitamente e casualmente, egli crede) produce sollecitandolo alla libera associazione; a cui vanno aggiunti quelli degli sbagli, delle gaffes, le deformazioni di parole, eccetera; ed ancora, le esitazioni, gli inceppamenti, ecc. ad associare di fronte a certe parole stimolo; e via dicendo. Preminentissima importanza poi lo psicoanalista dà — come tutti sanno — alla raccolta dei resoconti dei sogni e della libera fantasia.

Anche in questo lavoro preliminare, come si vede, la psicoanalisi si discosta decisamente da quella raccolta di notizie, in massima parte estrinseche alla persona, ch'è l'anamnesi del clinico (rivolta quasi esclusivamente ai fatti della vita esteriore dell'esaminato).

Se il cogliere ed il raccogliere tutti questi dati non è che l'antefatto dell'interpretazione ermeneutica, che in genere verrà dopo, è indubbio però ch'esso non è sempre un'inerte e mera registrazione. Vi si associa spessissimo il comprendere propriamente psicologico, cioè l'inserimento nel piano dei motivi a livello della coscienza. E' questo comprendere che di tanto in tanto sottolinea ciò che della spesso straordinaria raccolta di notizie dati contenuti, si estolle come più degno di esser preso in considerazione, come quello «da cui converrà» iniziare l'interpretazione. E' anche vero che questa scelta talora si riporta già alle convinzioni teoretiche dell'analista; ed è già allora, essa, un abbozzo di interpretazione. Sono dunque veramente «dati imparziali» (come dice Freud) tutti quelli raccolti dal preliminare lavoro euristico? Sono veramente tali quelli collezionati da un «uomo» (l'analista, coi suoi problemi, memorie, tendenze, insofferenze, eccetera) sul quale si scatena il transfert dell'analizzato o, peggio, il controtransfert ?

Ma c'è dell'altro: «Freud ci ha insegnato... ad intendere l’lo-non-posso del malato come un Io-non-voglio, dunque a concepire il rapporto Io-Non io come lo-Me stesso. La psicoanalisi ha del resto il suo diritto all'esistenza solo in quanto e per quanto questa traduzione sia possibile o quanto meno abbia valido significato». Ma Freud non si accontenta di questa equivalenza, ne postula un'altra: «Io-non-voglio = Lui-non-vuole», cioè non vuole l'Es, il fondamentale componente dell'inconscio. E' questo Es che comanda, che uccide ogni volere dell'Io! ; è questo Es che non sa esprimersi direttamente colla parola e che tuttavia toglie o deforma ogni parola all'istanza egoica che colla parola si testimonia e si afferma!

Orbene nel primo fondamentale insegnamento Freud è un antropologo; nel secondo enunciato soggiace alla necessità teoretica della ipostatizzazione riduttiva.

Ma nella pratica eccolo di nuovo antropologo, uomo con un altro uomo. Infatti errerebbe marchianamente chi credesse che l'interpretazione propriamente detta si limiti a rilevare e ad additare all'analizzato le «causalità inconscie» che hanno determinato le sue manifestazioni morbose. Non è davvero questa spiegazione sul piano della causalità quella decisiva a portare al traguardo del trattamento psicoanalitico e cioè alla «guarigione». Non basta che l'analizzato «sappia», egli deve rivivere con l'analista gli Erlebnisse su cui ha dato in antecedenza spontaneamente ragguaglio, e soprattutto quegli altri Erlebnisse (tali per modo di dire!) che «gli devono esser successi», secondo l'interpretazione, prima del tempo dell'Io e comunque fin'allora rimossi nell'inconscio. «L'interpretazione — dice Binswanger — comincia soltanto quando nel materiale (dei contenuti)... si infonde la vita e lo si raggruppa secondo le possibilità psichiche (dell'esaminato), cioè secondo le possibilità di essere propriamente rivissuto. Ed ecco allora che piano piano l'equivalenza: Io-non-voglio = Lui non-vuole, postulata dal teorico, si trasforma nell'evidenza Io-non-posso = Io-non-voglio, nel mentre contemporaneamente ripiglia, per dirla con Buber, la «vita dialogica» dell'Io con Se-stesso, sostenuta dalla mediazione dell'analista. Riemerge in una parola l'uomo. E' per questo, è «per infondere la vita» nei contenuti rilevati e rielaborati durante l'analisi, «è perché questi siano — appunto — rivissuti» che lo psicoanalista è costretto ad un certo punto a prestare all'inconscio (postulato come un'essenza irraggiungibile!) il linguaggio e le modalità espressive della coscienza, ch'è costretto ad ammettere l'esistenza di «pensieri, volizioni, atti, ecc., inconsci», in una parola a considerare l'inconscio come un qualcuno, come una persona, come una seconda persona. (Per la stessa ragione la psicoanalisi finisce per allargare, ben oltre il consueto, il valore del termine «motivazione»: tanto che intende per «motivazione inconscia» quella che lega un contenuto rimosso (dunque, subliminare) ad un contenuto cosciente. E' inutile dire che in questo caso non viene «immediatamente» colto il nesso motivazionale che unisce, anticipandoli e trascendendoli, i due contenuti, ma semplicemente «indicato» il rapporto tra il risultato ultimo di una rielaborazione ermeneutica (il contenuto latente) ed un contenuto esplicitamente e spontaneamente offerto (il contenuto manifesto).)

Come si vede la Deutung psicoanalitica è un comprendere quanto mai eterogeneo nei suoi vari momenti formali. E' un procedimento complesso in cui l'analista trapassa disinvoltamente da atteggiamento ad atteggiamento, da piano a piano, mutuando dati e rilievi e conclusioni dall'uno all'altro ed accettando senz'altro la validità di questa incessante mutuazione.

Quando nel lavoro interpretativo non può più procedere dai «dati imparziali», per questo egli non si arresta: si fa sollecitare da esperienze fruite con altri esaminati e da considerazioni analogiche. Se anche tutto questo non gli sembrerà sufficiente, si appoggerà a supposizioni ipotetiche o anche francamente teoriche. A questo punto la prassi interpretativa attinge a piene mani dalla teoria, con l'intesa di compensare il suo corpus con eventuali apporti, tali da affinarla o anche da maggiorarla. Giacché se la teoria psicoanalitica presume di impostare la pratica, si ripromette d'altra parte di mandare avanti il suo edificio colle «scoperte» della pratica stessa, in questo richiamandosi in pieno al concetto di «ipotesi di lavoro» che sta alla base delle scienze naturalistiche e fisicalistiche.

Se la tecnica interpretativa psicoanalitica è formalmente eteroclita (tanto che per questa sua difformità può esser facilmente criticata) e disuguale nel suo procedimento, tuttavia essa è un lungo pedale che permette di inoltrarsi, in estensione ed in profondità, nello sterminato regno dell'umano. Ma che cosa allora la sorregge e malgrado tutto ne fa un metodo valido proprio per l'umano, pur fondandosi essa su dei principi teorici che quest'umano riducono a natura? La risposta è questa: è anzitutto terapia, essa punta alla guarigione. E' un operare, un metter mano su di un altrui: le sue difformità e persino le sue antinomie sbiadiscono o anche spariscono in questa sua, diciamo, tensione teleologica che l'anima. L'interpretazione in definitiva non ha per traguardo tanto la «conoscenza» sulla dinamica della libido quanto di finalizzare altrimenti la concreta persona presa «in cura». In definitiva i momenti trasferenziali, possiamo pur dire coesistentivi, sono quelli decisivi per la riuscita dell'analisi. Anche per questa sua «tensione teleologica» è ben difficile porre il naturalismo in cui si proclama inscritta sullo stesso piano di quello delle scienze naturalistiche. E' questo fondamentale atteggiamento che ha fatto la sua fortuna: quella fortuna che le critiche e le opposizioni di ogni genere ben lungi dal far flettere hanno anzi sollecitata.

IV

Malgrado le eterogeneità che si possono facilmente rilevare nel procedimento psicoanalitico, non si può non riconoscere a Freud il merito grandissimo di aver additato e sottolineato — come nessun altro prima di lui e per il primo nel mondo scientifico — l'importanza della storia interiore (innere Lebensgeschichte): la prassi psicoanalitica altro non è in definitiva se non la sistematica ricostruzione (sia pure da un particolare punto di vista) di quel continuum di esperienze intime che segnano le tappe e, nella loro successione, la traiettoria del testimoniarsi di un individuo proprio in quanto e per quanto più essenzialmente lo individualizza, e non già soltanto la mera registrazione anamnestica delle vicissitudini attraverso cui è trascorso. Talmente ovvia appare oggi la necessità di seguire questa via se si vuol comprendere davvero qualche cosa di un altrui, da far dimenticare che l'averla indicata fu una grande e capitale conquista del pensiero medico-psichiatrico a cavallo tra i due secoli, prima attento quasi esclusivamente al succedersi degli avvenimenti esteriori dell'individuo piuttosto che alla sequenza degli Erlebnisse della sua intimità. In una parola, prima di Freud era quasi esclusivamente la storia esteriore (äussere Lebensgeschichte) quella che era tenuta in considerazione.

Anche questo principio metodologico, indicante perentoriamente la necessità di insistere sull'indagine della storia interiore dell'individuo, lascia ancora una volta perplessi ad accomunare il «naturalismo» di Freud col naturalismo, positivismo e materialismo della cultura che dominava alla sua epoca, sia nel campo filosofico che nel campo scientifico. Infatti se la naturalità dell'uomo (come individuo rappresentante della specie) ha il suo sviluppo, è ben arduo identificare questo sviluppo col dispiegarsi della sua storia, che parla della sua irripetibile singolarità e dell'irripetibile maturazione di questa singolarità. «E' davvero sorprendente — dice Binswanger — dover constatare come l'approfondimento scientifico più intensivo della storia interiore, la sua più sistematica e paziente interpretazione psicologico-ermeneutica, e cioè la psicoanalisi, rappresenti in pari tempo il più rigido e puntiglioso tentativo di condurre questa interpretazione in senso dinamico-funzionale, cioè naturalistico».

A differenza dei clinici che limitano l'indagine dall'inizio dei primi disturbi o dai loro prodromi od al massimo da eventuali preesistenti peculiarità temperamentali-caratterologiche-tipologiche assunte come anticipatrici della struttura morbosa in esame, Freud ha indicato sempre la necessità di ricercare senza tregua (senza parsimonia di tempo e senza accontentamenti) il prima di ogni prima, di non ritenere affatto sufficiente la messe di notizie e di informazioni ottenibili attraverso l'anamnesi clinica usuale per quanto diligente, ma anzi di ritenere questa null'altro che l'antefatto di quell'altra successiva indagine a cui è soprattutto affidato il compito di preparare il materiale euristico per l'interpretazione psicoanalitica. Infatti oltre alle testimonianze di congiunti e di conoscenti, oltre a quelle direttamente fornite dal malato stesso dopo aver frugato nelle pieghe più remote della propria memoria, di ben altre testimonianze va in cerca l'analista e precisamente di quelle che la consapevole memoria dell'esaminato non può fornire, di cui la memoria non può ricordarsi, di cui l'«Io non si ricorda».

Di questo esser-stato che precede la memoria, il singolo «non sa» in quanto si riferisce ad esperienze rimosse ed i cui contenuti pertanto non possono riemergere (non si tratta infatti di dati repressi o dimenticati, passibili tuttavia di essere ecforizzati da uno sforzo adeguatamente strenuo e protratto di rievocazione). Di questo esser-stato (senza potersene ricordare) l'individuo, secondo la psicoanalisi, dà resoconto solo indirettamente: attraverso le immagini dei sogni e le incontrollate fantasie, le libere associazioni, colla maniera con cui queste si succedono o ristagnano, attraverso gli errori che commette, i lapsus verbali, le gaffes di comportamento, ecce-tera. Sarà l'analista che, con una particolare tecnica — svolgentesi però sempre nella situazione di transfert, sine qua non per lo svolgimento ed il felice coronamento dell'analisi! — interpreterà questi contenuti all'esaminato, iniziandolo così ad accettare le informazioni di quella lingua (così particolare, contradditoria, ambivalente ed ambigua, così discosta dalla ragione ed in definitiva così incredibile in quel che dice) ch'è la lingua dell'inconscio.

Per far questo la psicoanalisi deve ridurre i contenuti manifesti, che si è procurata col preliminare lavoro euristico, nei loro corrispettivi contenuti latenti: in una parola deve ridurre la forma della storia interiore dell'individuo nella forma di una storia «sui generis», in breve, nella forma di una storia naturale, nella «storia» naturale della sua libido.

Ora Freud — che nel suo magistero e soprattutto in pratica, ha insegnato a tutti la via per raggiungere il fondo di un'alterità che a noi si rivolga e si affidi per essere capita ed aiutata — come teorico è sempre passato sopra all'irrapportabilità dei piani su cui si inscrivono rispettivamente l'evoluzione della libido come funzione di vita e la decisione storicizzante come costitutrice della storia interiore. Infatti egli si è sempre sforzato di considerare ed ha sempre considerato la storia interiore come epifenomeno dell'evoluzione della funzione vitale libidica.

Ma «quando si parla di storia interiore non entra più in campo la psiche quale funzione... ma solo ed unicamente l'uomo». Infatti un quantum maggiore o minore di carica libidica, la constatazione che la libido nel suo evolversi trapassi di zona in zona erogena, la considerazione che parte di essa possa eccessivamente fissarsi in una particolare di queste zone (orale, anale, ecc.) o condensarsi in un particolare complesso, che la restante (già ulteriormente evoluta) possa regredire su una di tali zone (che in una determinata fase della vita avrebbe dovuto essere abbandonata), che una di queste zone sovraccarica di forza libidica (fissata o regredita) possa accogliere attraendoli i contenuti «in rimozione», e via dicendo ancora a lungo: tutto ciò non potrà mai render conto di quell'unità significativa che promana sempre dalla storia interiore di un singolo e che si riporta non alla sua determinazione energetica ma alla sua decisione, cioè al «come» egli ha assunto e fatto proprio il suo «limite naturale».

Le differenze che intercedono, proprio a questo proposito, tra l'atteggiamento naturalistico-funzionalistico-genetico e quello antropologico- modale-ontico si possono lumeggiare particolarmente bene riproponendo il problema del nesso tra accadimento (Geschehnis) ed Erlebnis. (Tale tema è stato affrontato da Binswanger soprattutto in Geschehnis und Erlebnis, uno scritto polemico rivolto ad un'opera dello stesso titolo di ERWIN STRAUSS. Pubblicato nel 1931 — cioè pochi anni prima di Traum und Existenz e di Ideenflucht — il lavoro, nonostante la sua apparenza di scritto occasionale, è di grande importanza per la comprensione esatta del pensiero binswangeriano. In esso infatti c'è l'anticipazione di alcuni principi fondamentali da cui si dipartirà e si edificherà più tardi la Daseinsanalyse. (Si veda in proposito anche la prefazione al secondo volume di Ausgewählte Vorträge und Aufsätze, pp. 23-26).)

Nel linguaggio comune, quando si parla di accadimento la mente corre subito a qualche cosa di inaspettato, improvviso, inusitato, di particolare intensità, eccetera; e più ancora, a qualche cosa che «sorprende» l'individualità provenendo dall'«esterno», dal mondo (inteso nell'accezione generica di altro-da-sè). Quando invece si parla di Erlebnis, la mente corre ancora, sì, ad un evento di particolare importanza e rilievo, ma "tale soprattutto (o anche soltanto) per chi lo esperisce, e che subito si riporta e s'inscrive nell'intimo dell'individuo, tanto che immediatamente questi lo riconosce come «un proprio evento». E' chiaro che un evento può essere importantissimo per tutti come per il singolo: ma non necessariamente, anzi il più spesso no. E' altresì chiaro che gli attributi di improvviso, inaspettato, inusitato, eccetera, hanno un senso del tutto particolare quando si riferiscono al singolo. Questa discriminazione tra accadimento ed Erlebnis, che anche il più ingenuo neofita di cose psicologiche è portato a fare, ove sia assunta come assolutamente valida ha delle impplicanze teoretiche di grande rilievo per l'impostazione della psicologia stessa: tale discriminazione infatti postula come «ovvia» l'esistenza di meri accadimenti, cioè di accadimenti che abbiano senso di per se stessi, dunque a se stanti e che quindi «determinino» coercitivamente un determinato e non altro erleben.

Ma accadimenti, per quanto gravi per intrinseco contenuto tematico, che costringano ineluttabilmente, con assoluta coattività l'individuo «a cui capitano» all'assunzione di quel certo e non di altro significato, come per un'ineluttabile necessità, e che pertanto non possano non esser ritenuti causali di corrispondenti Erlebnisse, non ne esistono. Il nesso sui generis che intercede tra accadimento ed Erlebnis, non solo non si può indicare come un rapporto di causalità, ma non è neppure avvicinabile a questo in senso analogico. Anche quelle situazioni limite, di cui parla Jaspers, in cui l'accadimento sembra rivestire per tutti e per ognuno un solo significato, ad un'analisi più attenta ed adeguata si rivelano ben lontane dal rivestire tale univocità di senso. E così dicasi, specificando, per gli stessi accadimenti che possono rivestire un significato generale di estremo pericolo per le individualità «di fronte alle quali accadono» (per es., un terremoto). Ne segue che il ridurre il nesso tra accadimento ed Erlebnis ad un rapporto meramente causale, ipostatizzabile fisio-psichicamente in quello di stimolo-reazione, è non solo in assoluto ma anche in genere errato. «Naturalmente il fatto che accadimento ed Erlebnis non possano in verun modo venir concepiti come connessi casualmente, non significa che l'uomo non possa venir pensato... anche come immesso nella rete di rapporti causali naturali...; ma il pensarlo così non riuscirà mai a comprenderlo come persona esperiente (erlebende), come individualità, nel complesso e nel i contesto della sua storia interiore».41 Se il nesso tra accadimento ed Erlebnis non si può in verun modo ricondurre ad un rapporto di causalità, come allora può essere altrimenti inteso.

Bisogna guardarsi adesso dal cadere in un altro e più insidioso errore. Evidentemente quando si parla di Erlebnis non si può non pensare anche ad un evento: l’Erlebnis è contemporaneamente un esperire «qualche cosa» ed un sapere attorno a «qualche cosa» che capita. Questo qualche cosa che accade, accade pur sempre nel campo percettivo esteriore o anche in quell'altro campo di informazioni che è il nostro corpo (per esempio, una malattia organica). Ora si potrebbe pensare — se è vero, come si è convenuto, che meri accadimenti non ne esistono — che sia l'individualità a «dar senso» all'evento. Anche questa congettura si rivela fallace nel piano antropologico.

«Non è che l'uomo si limiti a introdurre un significato all'accadere, ma piuttosto che egli in quanto ne parla o vi pensa o anche semplicemente gli capita, immediatamente lo coglie in un determinato senso, cioè in un modo oppure in un altro o in un altro ancora, a seconda di chi è e di come egli è». Senso e significato infatti hanno senso e significato solo e soltanto per l'individualità, per quel certo determinato io e per il mondo ch'è il suo «mondo». «In verità il modo dell'erleben e il modo dell'accadere sono correlativi...; la distinzione tra accadere e significato è altrettanto artificiosa di quella tra Erlebnis e significato. Infatti il senso non è qualche cosa che stia tra i due poli dell'accadere e dell'erleben; esso si riporta sempre ad un determinato modo di comprendere... da parte dell'individualità. E si aggiunge che anche l'individualità ed il suo mondo non sono due poli antitetici bensì in relazione dialettica...».

Riassumendo quanto sopra in un solo enunciato: il polo costituito dall'esperire (erleben), cioè dell'individualità, e il polo dell'accadere (geschehen), cioè dell'oggettualità, debbono venir intesi come correlativi ad un'unica e medesima costituzione ontologica ; in altre parole, «correlativi al modo più individuale con cui l'individualità si decide e si schiude rispetto al suo essere ed al suo comprendersi». Tornerà qui acconcio un’esempio, che poi commenteremo, come illustrazione a quanto sopra.

In uno dei casi di schizofrenia più famosi e più a fondo analizzati da Binswanger, una moglie — Suzanne — aspetta trepidante nell'anticamera di un ambulatorio uro-logico il responso dello specialista che sta visitando il marito, a cui si è dedicata con morbosa

esclusività. Il responso è infausto: si tratta di cancro vescicale. L'annuncio è sconvolgente, ed è «comprensibile» (nel senso popolare ed anche jaspersiano del termine) che lo sarebbe stato per qualsiasi altra giovane moglie in identica situazione. Ma per Suzanne sarà ben di più: l'Erlebnis che a questo avvenimento si correla costituirà la situazione di inizio (non la causa!) di un lungo succedersi di metamorfosi del suo esserci, talché alla fine la sua presenza risulterà deietta in un mondo schiettamente delirante.

L'antropoanalisi — sulla scorta delle tante e tante testimonianze con cui questa figura di donna si rivela — ricostruisce passo a passo il dispiegarsi storico (Daseinsgang) delle sue varie trasformazioni, l'apparire e scomparire dei diversi mondi in cui successivamente essa si progetta, cogliendo di ognuno i corrispondenti aspetti formali e modali nella loro strutturata globalità (Daseinsformen) e di ognuno indicando il novum che esprimono. Lo sforzo di penetrazione fenomenologica-antropologica non si arresta a questo: continuamente cerca ed addita quale sia il fondo di questa presenza, la categorialità originaria (Daseinsgrund) che sottende e modera tutti i diversi modi («prepsicosici» e «psicosici») con cui successivamente e variamente Suzanne si esprime; e finisce per riconoscere in questa storia umana (che include, è ovvio, anche la sua storia clinica) un'esemplare epifania di una, per quanto tragica, possibilità dell'umano: e cioè quella di essere radicalmente dominati dal terrifico. Meta ultima dello sforzo analitico è appunto questa: di additare — attraverso un'interpretazione fenomenologica ben consapevole della necessità di sottrarsi da qualsivoglia ipostatizzazione riduttiva — l'essenza di questo modo di essere, l'essenza cioè dell'essere-nel-mondo per la tortura e per la propria distruzione.

Dopo l'annuncio sconvolgente, il «mondo» di Suzanne subisce una prima modificazione: perde ogni valenza simpatetica di confidenza e di sicurezza per assumere la fisiognomica di un avverso destino, spietatamente sordo ed indifferente alla sua pena. Per qualche tempo questo suo «mondo» resta ancora ancorato alla situazione di partenza; ma più avanti la tematica connessa alla scena nell'ambulatorio dell'urologo si svincola da ogni altro tema. Suzanne non vive ora soltanto per soccorrere il marito nella sua malattia ma anche e soprattutto per difenderlo, in un'irrigidita esaltazione oblativa, dall'incomprensione, indifferenza, incompetenza ecc. di tutti, fino a perderne il sonno e compromettere il proprio fisico. La sua presenza perde a poco a poco ogni possibilità di apertura e d'autentica coesistenza: i familiari, i conoscenti, i medici, le infermiere, ecc. scadono progressivamente di ogni rilevanza significativa capace di discriminarli come distinte persone, per venir tutti, più o meno, inglobati e distanziati in un'atmosfera grigia, ambigua, inquietante e soprattutto (anche se per il momento non sa dirsi chiaramente il perché) ostile ed oppressiva, che subodora in ogni dove, che la rinserra e in cui si trova ovunque immersa. La sua esistenza si impoverisce e si coarta. E poiché quando il «mondo» minaccia di vanificarsi si vanifica anche l'ipseità, in questo periodo Suzanne è sfiorata o anche francamente investita dal gelido vento dell'angoscia, accede sempre più spesso a quell'esperienza cruciale dell'umano, quando l'esserci è minacciato di perdere ogni sostegno, ogni quando e dove, e si appropinqua al «nudo» orrore del nulla.46 Quell'insieme di rimandi e di significazioni, per quanto sgradevoli, che strutturava il suo «mondo» subito dopo la situazione di partenza ed in cui poteva in qualche maniera affermarsi coesistentivamente, ora è pur esso un «mondo» lontano. Altro viraggio ancora: la salvazione dall'angoscia col progetto di un altro «mondo», il solo alla fine concessole, e sarà il «mondo» del delirio e dell'allucinazione. L'atmosfera dell'ambiguamente ed incomprensibilmente ostile prende corpo; un «sapere» delirante sempre più la illumina, ed è questa illuminazione che le permette di mondanizzarsi. «Sa», ora, che si parla e si sparla di lei, che la si commenta e la si denigra, che si ride e si irride, si accenna e si allude sconciamente sul suo conto. E' un mondo di personaggi tutti saldamente uniti tra di loro nel comune ruolo di disturbatori e di tormentatori. Suzanne li identifica nelle persone del suo ambiente; ma dietro questi «sa» anche di altri che agiscono dietro le quinte e che istigano i primi; e dietro, di altri ancor più potenti, ad infinitum. Non ha più «vicino» alcuno, mentre tutti le sono «addosso» in una promiscuità insopportabile. Il «mondo» è per Suzanne un giro inafferrabile, eppure una dura realtà. Ed ecco gli aspetti costitutivi di questo suo ultimo «mondo». Si è detto della spazialità: è quella del «promiscuo», dell'intollerabile «aver addosso». La temporalità è quella dell'«improvviso», dell'urgenza (Le Senne), dell'imminente reiterata aggressione. Il «colorito» di questo suo mondo è il grigio; la sua «materialità», la durezza; la «tonalità» soltanto quella del terrifico e dell'orribile. Da ultimo l'oppressione si fa ancora più stretta e crudele, il processo di distruzione ancora più implacabile e radi-cale. L'ipseità di Suzanne è del tutto impedita a dispiegarsi: giacché l'essere della sua presenza è ridotto al solo essere per l'offesa. La donna diventa allucinata da tutti i sensi: repellenti e disgustosi odori, voci sardoniche ingiuriami e diffamatorie, visioni sanguinose, improvvise scariche elettriche per tutto il corpo, eccetera, la «martirizzano». «La storia della mia vita — dice — è un martirologio». La «macchina infernale della distruzione» non si ferma mai ; la «prepotenza del mondo» si svela in tutto il suo nefasto strapotere ed ormai paralizza la sua presenza nell'elementare e continua necessità di difendersi.

Si tratta, dal Iato nosografico, di un caso grave di schizofrenia con florido delirio persecutorio-allucinatorio, come qualsiasi avvertito psichiatra avrà già capito: tutt'altro che raro dal punto di vista meramente clinico.

Ma questo caso, «clinicamente comune», viene assunto dall'analista non per farne argomento di discussioni nomografiche o per ridurre i vari sintomi con cui si manifesta nel piano di questa o di quella teoria patogenetica o per interpretarne i contenuti in base ad una «teoretica» psicogenesi. L'interesse da cui è mosso l'analista è eminentemente quello dell'antropologo. Insiste nell'indagare la storia interiore di Suzanne, rifacendosi a molto prima dell'episodio nell'ambulatorio dell'urologo, per ritrovare delle rivelazioni illuminatrici sul fondo costitutivo della sua individualità, su quella categorialità essenziale a cui si riferiscono tutti i sia pur diversi modi con cui la presenza della donna si è poi manifestata via via nel tempo.

L'antropoanalista sa in partenza che resta fuori del suo ambito ogni tentativo di ricostruire geneticamente il delirio dalla biografia prepsicosica. Né presume di farlo derivare da una preesistente determinazione costituzionalistica o costituzionalistico-psicologica o temperamentale o caratterologica. Egli sa che le dottrine psichiatriche costituzionalistiche e caratterologiche (come, tanto per dare un esempio, quella di Kretschmer), considerando l'individualità come a se stante ed avulsa dal suo «mondo», potranno tutt'al più dire qualcosa sul suo limite naturale, sull'avere un carattere (nella fattispecie: un carattere contraddistinto dai «tratti» della sospettosità, della diffidenza, del risentimento, ecc.) o una costituzione psicofisica (nella fattispecie: sensitiva o schizoide), ma non già sul suo decidere correlativamente a questo limite né intorno al suo progettarsi in un «mondo» (tra cui anche quello delirante), insomma al suo essere-nel- mondo. Del resto neppure la posizione delle scuole che partono dalla nozione di personalità o di persona può essere ritenuta adeguata al piano dell'antropologia fenomenologica, in quanto anche questi indirizzi dottrinari trascurano il fondo ontologico dell'uomo, l'essere della presenza come trascendenza.

Tanto meno — è ovvio — l'antropoanalista procederà come negli indirizzi psicopatologico-funzionalisti (da Wernicke in avanti), che, sulla base di una teoria scompositiva dello psichico, si sforzano di far derivare il delirio dall'interessamento di questa o di quella funzione (di volta in volta: l'affettività, l'ideazione, il giudizio, l'immaginazione, i bisogni, i desideri, ecc. ecc.). Idem, mutatis mutandis, dicasi infine per la psicoanalisi teoretica, che presume di poter derivare il delirio da quella particolare e fondamentale funzione dell'«organismo psichico» ch'essa denomina libido.

Dopo questa non breve parentesi esemplificativa, che tuttavia abbiamo ritenuta necessaria, torniamo ora al problema da cui siamo partiti, quello cioè del nesso sui generis che intercede tra accadimento ed Erlebnis.

Postosi su di un piano antropologico-fenomenologico, l'analista no| dirà che l'annuncio sconvolgente-terrificante nell'ambulatorio dell'urologo sia stato per Suzanne «causa» dell'Erlebnis e questo, per successive concatenazioni causali, vieppiù sovradeterminantesi, causa del delirio.

Non dirà neppure che l'accadimento sia stato «occasione» dello scatenarsi della futura struttura delirante, nel senso che la donna ne abbia fatto un Erlebnis col rivestirlo della sua premorbosa disposizione all'alienità, in definitiva un «motivo scatenante». Né presumerà, di conseguenza, di poter ricostruire geneticamente da questo punto il delirio, immedesimandosi nella successione tematica di partenza e successivamente negli altri temi a questo primo correlati.

L'antropoanalista non ritiene mai l'Erlebnis il motivo primo del delirio, l'ultimo fondo raggiungibile per poterlo comprendere. Assume piuttosto l'Erlebnis correlato all'accadimento come annunciatore del fondo della presenza che lo esperisce; come rivelatore di quella categorialità di base che la sottende e che fa sì che un motivo (nell'esempio succitato «comprensibilmente» gravissimo, ma in altri non sempre «comprensibilmente» tale) possa diventare motivo di un delirio, di una successione di trasformazioni modali che getteranno via via la presenza nella tragedia di una psicosi.

Da quanto sopra risulta ben chiaro che l'antropoanalista non considera mai il contenuto dell'Erlebnis come a sé stante, disgiunto dalla qualità modale che gli inerisce, da quella qualità fenomenica che «parla» della presenza che l'ha esperito. In breve, egli considera non già il nudo contenuto ma il contenuto nella sua intrinsecità fenomenica annunciatrice del modo di essere della presenza, del «chi», del «come» e del «mondo» del suo trascendersi.

Ma ritorniamo alla psicoanalisi. Essa in definitiva isola dall'Erlebnis il nudo contenuto (a cui attribuisce un senso manifesto ed uno, ben più«reale», latente) e questo contenuto riporta ad altro o ad altri, altrettanto disgiunti dalle loro qualità fenomeniche (o quanto meno senza tener gran conto delle eventuali diversità modali). Ma non basta. Riporta detto contenuto ad altri riferibili ad esperienze che suppone avvenute ancor prima della nascita dell'Io (in base a derivazioni teoretiche o avvicinamenti meramente analogici). Tra i due termini, il contenuto manifesto e quello latente, la psicoanalisi ritiene come la realtà stessa il secondo (il «supposto») non il primo (il «dato»): è il secondo che può dire qualcosa sul vero significato del contenuto manifesto, e non mai il contrario.48

La posizione antropoanalitica è al riguardo radicalmente diversa, come vedremo. Ma prima, a somiglianza di come abbiamo fatto riandando alle fonti antiche donde è nata la psicoanalisi, occorrerà risalire anche a quelle da cui è sorta la moderna antropologia fenomenologica.

V

La fonte remota del moderno orientamento antropologico-fenomenologico nel campo dell'alienistica, di quel movimento che ha trovato la sua più matura espressione e — soprattutto — la sua metodica nella Daseinsanalyse di Ludwig Binswanger, si può indicare in un disagio antico: quello cioè della psicologia e della seguace psicopatologia a riconoscere quale fosse l'argomento propriamente adeguato al loro piano di ricerca, tanto da esser di volta in volta inclinate, in questa essenziale incertezza, ora verso il polo di un ambiguo fisiologismo, ora verso quello di un'ingenua teoresi filosofica. La psicologia e la psicopatologia classiche assumono invero per tema un oggetto che è del pari un soggetto, e cioè l'Io dell'uomo. Ora qualsiasi teoria che riduca questo Io ad oggetto, fatalmente lo snatura; qualsiasi altra che lo conservi come soggetto sfugge alla possibilità di inserirsi nella serie delle scienze naturalistiche, anzi, delle scienze in genere, in quanto queste non possono non accedere al principio di obbiettivazione (nel senso tradizionale del termine).

Vediamo ora di ripercorrere, per quanto di gran carriera, le principali tappe che hanno condotto alcuni dei più avvertiti moderni psicopatologi — e soprattutto Binswanger ed i suoi più diretti prosecutori (come, ad esempio, Roland KUHN) — a superare questo antico disagio, a rompere questa basilare aporia, in altre parole a riconoscere quale sia l'«oggetto» (o, meglio, il tema, l'argomento) veramente adeguato per un'indagine che si proponga di non vanificare nel suo giro l'essenza dell'uomo, sia pure dell'uomo «malato di mente».

Filosofi, psicologi, psichiatri, neurologi, teorici e clinici, provenienti dai più diversi climi culturali e dai più disparati punti di vista, hanno contribuito — dalla seconda metà del secolo scorso, via via fino alla nostra epoca — a sollecitare e promuovere, direttamente o indirettamente, quell'apertura fenomenologico-antropologica che sta apportando oggigiorno un soffio veramente vivificatore e rinnovatore nell'ambito alquanto sonnolento della psicopatologia tradizionale, rinnovandone la problematica.

Dei filosofi si dirà ben poco, anche perché ben noti ai lettori di questa rivista: vi si accennerà solo e di sfuggita per quel tanto che il loro pensiero ha influenzato la psicologia e, con questa, la seguace psicopatologia.

Il primo nome che va fatto è indubbiamente quello di Franz BRENTANO (1838-1917), con riferimento all'opera sua più nota nel mondo degli psicologi, e cioè la Psychologie vom empirischen Standpunkte (1874). Dell'importanza di quest'opera al momento della sua apparizione e dopo, non si potrebbe dir meglio di quanto ebbe a scrivere un nostro illustre studioso, lo ZUNINI: «Il titolo indica un programma ed una presa di posizione contro la psicologia fisiologica di WUNDT, comparsa proprio l'anno precedente. La psicologia dev'essere scienza; per questo si fonda in modo categorico e definitivo sull'esperienza (ecco perché è empirica), ma ciò non giustifica che debba essere fisiologica... Quello che la sperimentazione ci presenta non è l'aspetto propriamente caratteristico del fenomeno psichico. L'esperimento descrive e misura il materiale greggio di cui il fenomeno dispone, ma ne trascura l'aspetto formativo, attivo... Psichico è veramente l'atto, che, solo tra tutti i fenomeni..., si distingue per non essere isolabile ed autosufficiente, ma per aver l'esigenza di un contenuto, e in questo si contrappone a tutti gli altri fenomeni non psichici, che si iniziano e si concludono in se stessi e non si riferiscono ad oggetti».

Riallacciandosi in questo esplicitamente al pensiero aristotelico e scolastico, Brentano, com'è noto, addita nell’intenzionalità la caratteristica prima dei fenomeni psichici, quella che li distingue inequivocabilmente dai fenomeni fisici. Nel fenomeno psichico (a differenza di quello fisico) si ha sempre un riferirsi ad un contenuto (.Beziehung auf ein Inhalt), un orientarsi, un rivolgersi verso un oggetto. Appunto perché ogni fenomeno psichico contiene immanente un certo qualche cosa, si può definire come psichico ogni fenomeno che contenga intenzionalmente un oggetto, ogni fenomeno cui intimamente inerisca un oggetto (innerlich gegenständlich). Nella percezione c'è un certo percepito, nella rappresentazione un certo rappresentato, nel desiderare un alcunché a cui si tende, ecc. Che quest'oggetto sia poi reale od irreale, non importa; può esser spesso anche irreale, come quando, per esemplificare, ci si immagina un animale mitologico. Quello che qui più importa sottolineare è che l'intenzionalità non è in nessun caso da intendersi come un antefatto del conoscere.

I meriti che gli psicologi riconoscono a Brentano sono diversi. Anzitutto quello di aver caratterizzato il fenomeno psichico tenendosi in pari tempo lontano sia da concezioni biologistiche che idealistiche; di conseguenza, di aver implicitamente additato quella posizione sui generis in cui deve tenersi la psicologia se vuol essere veramente quella scienza della psiche dell'uomo ch'essa vuol essere. Il riconoscimento del carattere essenziale dello psichico (e, in particolare, della coscienza) nell'intenzionalità ha risvegliato in schiere di psicologi l'interesse per gli aspetti relazionali e per le configurazioni intersoggettive dell'umano. Chi, per esempio, oggi si affaccia al problema dell'alterità, non può certo non ricordare l'insegnamento del maestro di Würzburg e di Vienna (sia pure attraverso la mediazione di HUSSERL). E' da lui in definitiva che chiaramente discende il filone che, attraverso la fenomenologia husserliana, porta direttamente ai moderni antropologi, anche nel campo della psicopatologia. Del resto a lui si riconnettono molteplici indirizzi fondamentali nella storia, così contratta, della psicologia moderna.

All'insegnamento di Brentano si formò e si adeguò, ad esempio, Alexius MEINONG (1853-1920), che mutuò gran parte delle fondamentali tesi brentaniane nel campo della psicologia sperimentale. In Meinong viene ad assumere un'importanza prevalente il problema del?oggetto. Questo è inteso non già come a sè stante, ma come inerenza di qualsivoglia attività psichica. L'oggetto è di per se stesso indefinibile; ciò che invece lo psicologo può e deve definire è il particolare processo psichico con cui è colto (Gegenstandtheorie).

All'insegnamento di Meinong (Scuola di Graz) si formarono numerosi ed illustri psicologi: oltre allo STUMPF (ch'è tra i più noti, ma che battè poi altre strade, pur restando fedele alle basi dottrinarie del maestro), basti qui ricordare l'HÖFLER, il WITASEK, il nostro Vittorio BENUSSI (più tardi capo della Scuola di Padova - MUSATTI e allievi) e, soprattutto, I'EHRENFELS. Questo gruppo di studiosi precorse quella grande rivoluzione nel campo degli studi psicologici ch'è stata ed è la Gestaltpsychologie. La quale poi trovò nella Scuola di Berlino (WERTHEIMER, KÖHLER — a suo tempo pure lui allievo di Meinong — KOFFKA, ecc.) la sua codificazione esplicita ed i suoi più ampi sviluppi. Il risultato più prezioso e generale di questa grande corrente psicologica è stato il riconoscimento che non i dati inferiori (leggi: sensoriali) sono quelli che prima son colti e generano (come credeva la psicologia associazionista) i dati superiori ed in particolare le strutture e le qualità formali, ma che viceversa sono le forme ciò che propriamente (cioè inderivabilmente) vien colto dal fatto percettivo, i vari elementi essendo assunti non di per se stessi ma nell'anticipante struttura in cui s'inscrivono e si adeguano, che appunto li «informa», nonché in riferimento al situazionato atteggiamento del percipiente.

I moderni antropologi guardano oggi forse con maggiore interesse alle formulazioni pristine della Scuola di Meinong piuttosto che a quelle successive, dichiaratamente gestaltiste, della Scuola di Berlino. In quest'ultima infatti il campo percettivo viene considerato come piuttosto estrinseco al soggetto, mentre nella prima l'orizzonte oggettuale è sempre ritenuto nella sua inerenza (Brentano diceva: in-esistenza intenzionale) ad esso.

Un altro glorioso allievo di Brentano (diretto e soprattutto indiretto attraverso Karl Stumpf) fu Edmund HUSSERL (1859-1938), il padre della moderna fenomenologia. Come tutti sanno, fu appunto ascoltando le lezioni viennesi di Brentano che Husserl lasciò le matematiche per una «filosofia rigorosamente scientifica», come il maestro esigeva. Dell'autore delle Logische Untersuchungen (1900-1922), delle Ideen zu einer Phänomenologie und phänomenol. Philosophie (1913), delle Cartesianische Meditationen (1931) e della Krisis (1936), non diremo esplicitamente.

Tutta l'opera di Binswanger è così radicata nel suo pensiero che non si può parlare di Daseinsanalyse senza ch'esso costantemente riaffiori: in modo decisamente prevalente prima dell'incontro con HEIDEGGER (1917-1929), ma anche dopo, specie in questi ultimi anni. Nel più recente contributo di Binswanger: Melancholie und Manie - 1957, il ritorno alle fonti husserliane, specie alle Cartesianische Meditationen (ove più suggestivamente per uno psicopatologo viene dibattuto il problema dell'alterità), è nettissimo. Si può dire che l'influenza del maestro di Friburgo nello sviluppo della moderna psicopatologia antropofenomenologica vada nettamente accentuandosi di anno in anno.

Né va sottovalutata l'importanza ch'ebbe per l'indirizzo in discorso un'altra fonte: Paul NATORP (1854-1924) (specialmente per la sua Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode, 1912), che insegnò a studiare gli stati di coscienza in riferimento ai processi di obbiettivazione di questa ed a «ricostruirla» in base appunto alle sue «prestazioni» (principio della ricostruzione della coscienza dalle prestazioni). In Natorp la soggettività è intesa come soggettivazione (Subjektivierung), in un senso che, sia pure alla lontana, fa presagire l'accezione che Heidegger dà al termine di Dasein.

Per le stesse ragioni di cui si è detto per Husserl, si tacerà anche di Martin HEIDEGGER. Basti qui ricordare che fu la meditazione su Sein und Zeit a suggerire a Binswanger quella base ontologica che divenne il costante riferimento su cui via via edificò il suo metodo di analisi degli aspetti ontici dell'alienità, in definitiva a condizionare la nascita stessa della Daseinsanalyse.

Tra i moderni epigoni di Husserl e di Heidegger sian qui ricordati in particolare il nome e l'opera di Wilhelm SZILASI (Macht und Ohnmacht des Geistes, 1946-1950), che ha avuto, specie in quest'ultimo decennio, una notevolissima influenza sul mae-stro di Kreuzlingen.

Ma molte altre voci ancora ascoltò Binswanger, che variamente fecondarono e sollecitarono i suoi sforzi di rinnovatore della psicopatologia, e che lo portarono a ripensarla in senso antropologico.

Anzitutto Max SCHELER (1874-1928) (specialmente: Wesen und Formen der Sym-pathie, 1923) che, estendendo con geniale originalità all'etica la fenomenologia hus-serliana, additava nei valori la costitutività essenziale dell'umano e che, sottolineando l'irrepetibile singolarità del singolo, riconosceva come questa non potesse attuarsi e rivelarsi se non nel rapporto simpatetico interumano.

Non minore importanza, forse, è da ascrivere all'influsso di Martin BUBER (Ich und Du, 1922, Zwiesprache, Das Problem des Menschen, ecc. fino al 1941, il tutto poi raccolto in Dialogisches Leben, 1946) che ribadì incessantemente l'inerenza di un Tu in ogni testimoniarsi e progettarsi dell'Io, fino al punto di affermare che la parola fondamentale con cui comincia ogni discorso umano non è la parola Io, ma l’inderivabilmente originaria parola coppia Io-Tu.

La necessità fondamentale di assumere come tema di analisi il Mit-mensch, cioè la coesistenza, e non l'uno o l'altro dei due poli del rapporto interumano, gli fu ribadita inoltre da Karl LÖWITH (Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, 1928), nella cui opera, squisitamente ed ante litteram antropologica, l'accento cade sul problema dell'intersoggettività ed in cui viene riconosciuta l'importanza del linguaggio come costitutivo e rivelatore delle configurazioni interumane.

Ed accanto a Löwith, sia qui subito citato René LE SENNE (1882-1954) (Obstacle et Valeur, 1934), in cui appaiono congiuntamente dibattuti i problemi della relazione e del valore, del rapporto cogli altri e con se stessi (in particolare: il rapporto col- l'istanza limitativa del proprio carattere).

Ragioni di misura — giacché l'uomo e l'opera meriterebbero un lungo discorso — ci vietano di intrattenerci adeguatamente su Karl JASPERS (di cui del resto marginalmente si accennerà più avanti, riferendoci a lui non tanto nelle vesti del maturo filosofo, quanto in quelle dell'ancor giovane psichiatra con cui si presentò alla ribalta della cultura europea nel lontano 1913, all'epoca della sua famosissima Allgemeine Psychopathologie). Del filosofo però non possiamo dimenticare quanto le sue opere (tra cui soprattutto sian qui citate: Philosophie - 1913, Psychologie der Weltanschauungen - 1925 e Vernunft und Existenz - 1935) abbiano sollecitato l'av-vento della moderna psicopatologia antropoanalitica per la centrale importanza che in esse vengono ad assumere i problemi dell'ipseità e dell'alterità, della relazione tra l'una e l'altra, della realizzazione del sè ed in genere della comunicazione.

Necessità espositive, e null'altro che queste, ci han costretti a far menzione solo ora di un altro cruciale punto di riferimento (peraltro anch'esso oramai remoto) del moderno indirizzo antropoanalitico. Vogliamo alludere a Wilhelm DILTHEY (1833- 1911) ed in particolare alla sua opera: Ideen über eine beschreibende und zer-gliedernde Psychologie (1894). Già prima di questa, il grande esponente dello stori-cismo tedesco aveva formulato quella nozione di Erlebnis dopo di lui diventata così familiare agli psicopatologi. L'Erlebnis, secondo Dilthey, è la più piccola unità di coscienza: anticipa e precede ogni altro sapere riflesso, ogni giudizio, ogni considerazione di causalità. E' un evento che fa tutt'uno con noi. Non è qualche cosa che semplicemente avviene davanti a noi o in noi: il suo essere lo assumiamo immediatamente come ciò che per noi è evidentemente presente. E' un evento esperito nel-l'intimo e nell'intimo immediatamente accolto e riconosciuto come proprio: in breve, un qualche cosa di noi che avviene in noi. Per avverarsi presume, è ovvio, l'integrità funzionale dei nostri supporti sensitivo-sensoriali e si correla pur sempre all'accadere del mondo: si estolle però dalla possibilità di essere circoscritto in termini di psico-fisiologia e da qualsivoglia criterio di causalità. Nell'Erlebnis il singolo si riconosce. Esso infatti non è soltanto un esperire qualche cosa, ma contemporaneamente un sapere attorno ad un qualche cosa, questo «qualche cosa» essendo sempre un alcunché del se stesso dell'esperiente.

Ora, se l'Erlebnis parla del singolo, come può esso integrarsi nella sua storia, che significa (e non può non significare) singolarità in riferimento all'alterità, all'ambiente, al mondo in genere? Dilthey per rispondere a questa domanda introduce la nozione di connessione strutturale (Strukturzusammenhang). Ogni vita psichica individuale è sottesa da una sua struttura a cui si riportano gli eventi attraverso cui trascorre ed a cui si adeguano, articolandosi l'un l'altro, gli Erlebnisse. Questo insieme strutturale non è alcunché di statico, ma piuttosto un tutto nettamente finalizzato, a cui inerisce un significato (Bedeutung) generale di cui i vari Erlebnisse variamente danno testimonianza. L'articolata trama degli Erlebnisse — che pur si dispiegano e si succedono nel tempo — null'altro è dunque che la storia interiore. In altre parole la successione degli Erlebnisse è esperita come un divenire, come uno sviluppo49 di se stessi. In breve: se tutti i diversi Erlebnisse parlano del fondo strutturale del singolo (tutti essendone impregnati, tutti contribuendo a rivelarlo), è tuttavia la loro articolata connessione che parla dello sviluppo (Entwicklung) di questo fondo. La categoria della causalità, pertanto, che lega i diversi Erlebnisse non dev'essere mai confusa colla nozione di causalità delle scienze naturalistiche (in cui i

due termini di causa ed effetto non sono invertibili), giacché se un Erlebnis «fa comprendere» un altro Erlebnis, quest'ultimo a sua volta «fa comprendere» il primo, e tutti ognuno ed ognuno tutti, anzi il tutto nella sua categorialità, nel suo significato generale.

Le Ideen di Dilthey fecero scandalo e, al loro apparire, furono attaccate da entrambi i fronti, dai filosofi e dagli psicologi, tra cui basti qui menzionare I'EBBINGHAUS. Esse minavano infatti le basi stesse della psicologia che proprio in quell'epoca puntava decisamente ad allinearsi nel piano delle scienze naturalistiche. Per Dilthey se si voleva davvero parlare di psicologia dell'uomo bisognava lasciar indietro il problema causale per portare tutta l'attenzione alle modalità dei fenomeni, ai «come». La psicologia non poteva così più appartenere alle scienze naturalistiche, ma alle Geisteswissenschaften, alle scienze dello spirito, autocomprendersi in queste, e pertanto adottare altri metodi e puntare su altre validazioni, dato che anch'essa pur voleva pervenire ad un ideale di esattezza non minore di quello delle scienze fisico-naturalistiche.

La lezione di Dilthey fu però di somma importanza per la psicologia e per la psicopatologia per due fondamentali ragioni. Anzitutto essa additava due vie al capire: la spiegazione valida per l'uomo ipostatizzato a natura (individuo come espressione della specie) e la comprensione (contemplazione, visione) modale (Wesenschau) valida per ciò che propriamente significa esser-uomo.

Inoltre, essa introduceva implicitamente la nozione di storia interiore: il continuum nel tempo degli Erlebnisse di un individuo, uniti tra loro in una globalità significativa (Bedeutungszusammenhang), in un insieme strutturale (Strukturzusammenhang) teleologicamente moventesi. Non possiamo, in questa sede, inseguire ulteriormente il pensiero di Dilthey (curvato del resto prevalentemente, come tutti sanno, in senso storicistico): ma indichiamo subito quale influsso esso ebbe per la psichiatria.

Nel 1913 la psicopatologia si poneva come scienza autonoma (pur nell'ambito delle discipline alienistiche) per opera di Karl JASPERS, che pubblicava quell'Allgemeine Psychopathologie, di cui si disse, destinata a restare fino ad oggi come una pietra miliare a cui anche a distanza di quasi mezzo secolo gli psichiatri non possono non riferirsi.

Orbene, fin dai primi capitoli di quest'opera non è chi non veda quale estrema importanza venga data al problema del conoscere, su cui Jaspers si dilunga. Vi si postula una discriminazione fondamentale tra due modalità del capire: lo spiegare (erklären) ed il comprendere (verstehen). L'una — lo spiegare — punta alla causa; l'altra, il comprendere — punta ai motivi; la prima riduce il fenomeno ipostatizzandolo sul piano di una determinata teoria e lo esplicita appunto riducendolo ad una serie di articolazioni genetico-causali, la seconda lo conserva intatto inerendo in esso e nelle sue motivazioni. Lo spiegare oggettivizza il fenomeno (cioè lo distanzia ed in certo senso lo destituisce della sua fenomenicità), il comprendere lo assume inserendosi e penetrando nelle sue peculiari qualità fenomeniche col mezzo della immedesimazione, dell'intuizione empirica, ecc.; l'uno è un capire indiretto e razionale, l'altro un capire diretto o meglio un «sentire per accordo».

Si adegua alla distinzione tra erklären e verstehen la distinzione tra ciò che viene colto nell'uno e nell'altro atteggiamento, e cioè rispettivamente la causa e il motivo. I due termini che stanno alla base di un rapporto di causalità non sono uniti tra di loro da un'anticipante unità di significato (per esempio, una persona cade in uno stato di stupore perché improvvisamente è stata colpita da un evento estremamente emozionante, poniamo essendo stata spettatrice di un grave incidente automobilistico che pur non l'ha danneggiata fisicamente; ora tra il termine incidente automobilistico - causa - e il termine stupore - effetto - non esiste alcuna unità di significato). I due termini invece che costituiscono un rapporto di motivazione sono tra di loro uniti da un'unità di significato che anticipa la relazione stessa (per esempio, una madre cade in uno stato depressivo per la morte del figlio; in cui tra i due termini «madre che piange» e «figlio morto» esiste una unità di significato madre-figlio figlio-madre, cogliendo la quale immediatamente si comprende il motivo della disperazione della madre).

L'introduzione in psichiatria della nozione di comprendere (verstehen) nel senso diltheyano-jaspersiano del termine, ha messo in moto, direttamente e indirettamente, un grande numero di indagini sul conoscere psicopatologico, che alla lunga hanno fatto sempre più dubitare della validità dell'impostazione meramente naturalistica della psicopatologia. Il comprendere attraverso l'incontro tra esaminato ed esaminatore

— per esempio — è ben distante da quell'esigenza di obbiettivazione distanziarne che sta alla base delle scienze naturalistiche, anzi, non si erra molto affermandolo, si muove decisamente al polo opposto, è un «avvicinamento interumano» nello spazio sui generis dell'intersoggettività.

Per quanto grande sia stato il merito di Jaspers nell'aver introdotto in psicopatologia la distinzione tra «erklären» e «verstehen», il moderno indirizzo antropologico-fenomenologico non può più accontentarsi della comprensione per immedesimazione della persona presa in esame. Nel caso, ad esempio, di una psicosi, poniamo di una schizofrenia, questo comprendere tutt'al più ci porterà a riconoscere i limiti della comprensibilità, il limite dopo il quale c'è l'incomprensibile, cioè l'incomprensibilità del delirio.

Ben diverso invece il comprendere antropoanalitico. Anzi, «il comprendere antropologico-fenomenologico, nel senso heideggeriano del termine, e cioè di comprendere esistenziale, è al di là dell'antinomia tra comprendere e spiegare nel senso di Jaspers». II comprendere antropologico si ripromette di cogliere l'essenza del modo di essere altrui, gli aspetti costitutivi di questo modo di essere e l'intima connessione che intercede tra di loro. Se anche nell'analisi di un singolo caso esso non può prescindere dalla Einfühlung per procurarsi il materiale euristico della sua interpretazione, nel momento che gli è proprio esso parte e si svolge in un atteggiamento di fredda neutralità, di contemplazione e di penetrazione del come-è-nel-mondo l’alter o l’alius preso in esame.

«La fenomenologia — scriveva Jaspers nella sua Allgemeine Psychopathologie — ha il compito di presentare chiaramente gli stati d'animo come sono provati dai pazienti, di prendere in considerazione i loro rapporti di parentela, le loro reciproche affinità, di delimitarli quanto più esattamente possibile e di darne testimonianza in termini netti». Ma se a questa formulazione del giovane Jaspers si può in via di massima annuire, è ben difficile riconoscere in essa una qualche indicazione sulle modalità a cui lo psicopatologo deve informarsi per presentificarsi e presentificare agli altri gli stati d'animo dell'altrui preso in esame, specie poi se questo è un alienato! «Il concetto di rapporto di comprensione — dice Binswanger — nel senso di Jaspers è un mezzo in definitiva astratto e metodologicamente remoto dalla psicologia, giacche manca ad esso proprio l'essenziale, quanto va massimamente ritenuto e considerato in primo piano ogni volta che in psicologia si parla di comprensione e di comprendere: e cioè il riferimento all'essenza della persona da comprendere...».

Molti anni dopo così scriveva Eugène MINKOWSKI: «La fenomenologia sorpassa il piano dell'osservazione, e così tende verso la visione dei caratteri essenziali dei fenomeni... cioè verso la visione delle essenze» (Phénoménologie et analyse existentielle en psychopathologie — Evol. Psych., 1948 - p. 3).

Si è già molto più avanti. Ma in Minkowski il metodo ancora non si vede. Sarà

Binswanger a dettarlo, fondandosi sulla fenomenologia husserliana e sull'ontologia di

Heidegger.

Ma anche da altri ambiti culturali, del tutto estranei alla filosofia, e spesso alquanto remoti tra di loro, si sono levate voci autorevolissime ad indicare, come imprescindibile esigenza, la necessità di indagare l'Io non di per se stesso ma siccome strettamente ed indissolubilmente unito al suo mondo. Naturalmente i termini con cui si sono espressi questi Autori sono difficilmente rapportabili, muovendosi essi di volta in volta nel campo della psicologia animalista e della psicologia sperimentale, in quello della neurologia o in quello della psichiatria (o, più recentemente, della cosiddetta psicosomatica): ma nonostante ciò la suddetta fondamentale esigenza si è imposta sempre più netta ed imperiosa.

Ricorderemo in proposito anzitutto l'opera di un sommo psicologo animalista: Jakob von UEXKÜLL (1864-1944) {Theoretische Biologie, 1920-1928, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen — con KRISZÜAT — 1934, Bedeutungslehre, 1940, Der Sinn des Lebens, 1947, ecc.). Partendo egli dalla incontrovertibile constatazione che l'organizzazione sensoriale è del tutto diversa nelle diverse specie di animali, arrivò alla famosissima postulazione per la quale «ogni animale ha il suo mondo», obbedendo in esso e per esso a delle specifiche sollecitazioni che da questo mondo per lui e soltanto per lui promanano, impercettibili nelle loro peculiarità agli animali di altre specie, ed a cui soltanto quella certa specie di animale è coordinata. I mondi delle diverse specie di animali sono pertanto di per se stessi assolutamente impenetrabili. Questa postulazione di base fu di enorme importanza nel campo della psicologia animalista: fu essa infatti che mise in guardia lo sperimentatore dall'attribuire al comportamento dei bruti un significato antropologico, ed in genere per l'«impostazione neutrale» della psicologia animalista. Che poi l'Uexküll — muovendosi in un piano che non gli era familiare — abbia alla fine voluto mutuare queste sue concezioni anche nell'ambito dell'umano, per esempio cercando di indagare i mondi dei propri amici, come se anche ogni uomo avesse un suo mondo a se stante, impenetrabile nella sua essenza in quanto a lui ed a lui solo coordinato ed integrato e che lo determina, è stato poi lo sviluppo più criticabile e debole della sua dottrina. Uexküll restò cieco alla considerazione della multicategorialità dell'umano e dell'impossibilità pertanto di poterlo ridurre nel piano di una rigida determinazione naturalistica, nell'accezione più angusta del termine; né vide come il suo essere non poteva attuarsi se non nella comunicazione. Comunque l'aver sottolineato sia pure nel piano zoologico la necessità di indagare di per se stessa e primariamente l'unità individuo-ambiente, fu tutt'altro che un apporto insignificante per il sorgere della moderna antropologia.

Pur muovendosi in un altro ambito e cioè in quello schiettamente neurologico, importanza notevole ebbe anche l'opera di Kurt GOLDSTEIN fondata su studi sui feriti cranici della prima guerra mondiale (Psychologische Analysen hirnpathologischer Fälle, con Gelb, 1920) ed in particolare sugli afasici (Ueber Aphasie, 1927). In questa sede e per i precisi fini di questo scritto, basti ricordare della vasta e complessa opera goldsteiniana solo alcune nozioni fondamentali. Con questo insigne neurologo entra a piene vele nel campo della neuropatologia la nozione di Ganzheit, di totalità. Contro le dottrine dei Meynert, dei Broca e dei Wernicke, postulanti una stretta dipendenza delle manifestazioni psicopatologiche dalla minorazione o dall'alterata l'unzione di certe aree cerebrali (psicopatologia a mosaico), Goldstein enunciò la tesi che non è tanto la minorazione o l'alterata funzione di una certa area cerebrale a determinare il disturbo psichico, quanto piuttosto la risposta data a tale incidenza da tutto l'apparato cerebrale, anzi, da tutto l'organismo. Per Goldstein il quadro psicopatologico è la forma con cui tutto l'organismo risponde, adeguandosi e adattandosi alla minorazione od alla alterazione cerebrale ed alla nuova situazione ambientale in cui, per l'incidenza morbosa, propriamente la persona del malato viene a trovarsi.

E' chiaro, da quanto sopra, quale sia stata l'importanza del pensiero di Goldstein (esplicitamente muoventesi nell'ambito della Gestaltpsychologie) nel sollecitare il faticoso affermarsi dell'orientamento antropo-fenomenologico moderno.

Con questo insigne neuropatologo si viene infatti a riconoscere che l'uomo pur alterato o minorato nelle sue strutture cerebrali trova sempre, anche in tali condizioni, una nuova forma per esprimere se stesso, che insomma resta sempre, proprio perché uomo, un essere weltbildend, che si progetta ancora in un suo «mondo». (E ciò per quanto il nostro «giudizio» possa indicare questo suo nuovo modo di declinarsi in esistenza come «alterato», «degradato», «minorato», ecc.).

Un'altra importante figura di studioso, che si inserisce agevolmente nell'ordine di idee che qui si dibattono, è quella di Viktor WEIZSÄCKER (allievo di quel Ludolf KREHL da molti considerato un precursore della moderna psicosomatica). Qui ci si riferisce a lui specialmente in considerazione della sua opera più nota ed in definitiva più originale: Der Gestaltkreis (1939), trascurando le numerose altre successive in cui à poco a poco egli si trasforma (ciò che del resto era intuibile dalle premesse) in un antropologo, pur preoccupandosi egli sempre di sottolineare la sua posizione di medico (antropologia medica). La sua lezione, sostenuta da una larghissima esperienza clinica al letto del malato, si può considerare un insigne sforzo critico e creativo inteso a dettare una dottrina neuropsichiatrica atta a superare la tradizionale impostazione in termini meccanicistici, di spiegazioni causali dal più semplice al più complesso, di stimolo-reazione, eccetera. La neurologia classica (fondata sulla 'teoria' del neurone, sulla 'teoria' dei riflessi e, in definitiva, su concezioni meramente morfofisiologiche per non dire psicofisiche), per valida che sia per intendere la strumentalità meccanica dei quadri, sarà sempre impotente a cogliere quella totalità a cui i quadri nei loro sintomi si riferiscono e che nel loro insieme esprimono.

Approfondita l'essenza del movimento spontaneo, Weizsäcker postula l'unità della percezione e del movimento: è questo l'enunciato fondamentale del suo pensiero. Tutte le volte che noi ci muoviamo, per esempio in una stanza, anche le cose che ci circondano sono in effetti percepite in movimento: si avvicinano o si allontanano da noi o ruotano attorno a noi a seconda che ad esse ci avviciniamo o semplicemente ci spostiamo nei loro confronti, secondo le leggi classiche della prospettiva. Solo che noi non prendiamo sul serio questa percezione di movimento. Non si potrebbe affermare l'esistenza di un luogo fisso ed immobile, se non riconoscessimo implicitamente che certe percezioni di movimento sono da noi esperite come non vere, come apparenti. Il fatto è che noi siamo legati alle cose che ci circondano con relazioni ben definite. Questo modo di relazionarsi e di esser relazionato è detto da Weizsäcker coerenza: ch'è propriamente «l'unità provvisoria che un soggetto forma col suo ambiente, in un certo ordine». Un ordine è tanto più in equilibrio quanto più tende ad opporre una resistenza a ciò che tenta di turbarlo. Il movimento e la percezione fanno tutt'uno, un ciclo di struttura: e ciò non nel senso di un'unità neuro-miogena (di eccitamenti o stimoli — trasmissioni sinaptiche — risposte motorie, ecc.) ma originariamente. Solo che la percezione è «opaca» al movimento che le si riferisce, e questo a sua volta è «opaco» alla percezione che gli si riporta. Ogni atto, cioè ogni spontaneità, è ad «un» tempo percezione e movimento. Ogni atto biologico, più generalmente, è da intendersi come una restaurazione dell'ordine e della coerenza tra soggetto ed ambiente. Una presenza qualsiasi che intervenga validamente a turbare la coerenza, è foriera di disordine e scatena l’Entscheidung, la decisione (decisione) cioè il viraggio verso un altro ordine.

Alla fine dovrebbe esser fatta particolare menzione di Eugène MINKOWSKI, il noto psichiatra parigino che da un cinquantennio e più seguita incessantemente a dare contributi interessantissimi. Le sue opere — come La schizophrénie (1926 e 1951), Le temps vécu (1932), Vers une cosmologie (1936) — sono sugli scaffali di tutti gli alienisti. Di impostazione dichiaratamente bergsoniana, all'insegnamento di Bergson si è mantenuto sempre fedele: ed in questo solco ha ripensato, con rara capacità di penetrazione fenomenologica, diversi dei più importanti problemi della psicopatologia. I rapporti tra Minkowski e Binswanger sono stati strettissimi, per quanto poi ognuno dei due abbia proseguito per la propria strada. Basti qui dire che se qualcuno volesse di proposito ricostruire il movimento antropoanalitico dalle origini, dovrebbe rifarsi di necessità a quella famosa seduta del 25 novembre 1922, alla Società Svizzera di Psichiatria, ove l'uno e l'altro dal proprio punto di vista recisamente affermarono la necessità di un'apertura francamente fenomenologica come indispensabile al rinnovamento della psicopatologia. Ed accanto a Minkowski siano qui almeno ricordati (e in verità meriterebbero più di un cenno) Viktor E. von GEBSATTEL (Prolegomena einer medizinischen Anthropologie - 1954, ecc.) ed Erwin STRAUS (Geschehnis und Erlebnis - 1930, Die Störungen des Werdens und des Zeiterlebens - 1939, ecc.).

Gli indirizzi fenomenologici che si rifanno a questi insigni studiosi e dotatissimi alienisti si possono in certo senso ritenere come antesignani della Daseinsanalyse. Binswanger li designa come strutturalisti, in quanto, pur partendo essi dal riconoscimento della necessità di approfondire la psicopatologia dal punto di vista fenomenologico, pur essendo essi attentissimi agli aspetti formali (appunto, strutturali) ed antropologici delle manifestazioni dell'alienità, le loro lezioni sono prive di quella guida e di quel metodo che alla Daseinsanalyse sono suggeriti dalla costante presentazione del fondo ontologico dell'essere umano

• Un altro grande ambito culturale che ha avuto una notevolissima importanza per l'avvento e la costituzione del moderno indirizzo antropoanalitico, è quello della linguistica.

Il riferimento primo ed imprescindibile, anche se molto remoto, che in proposito va fatto è a Wilhelm HUMBOLDT (1767-1835) ed in ispecie alla sua opera lieber die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues (uscita postuma dopo moltissimi anni nel 1880). Come tutti sanno, rimonta ad Humboldt la fondamentale discriminazione tra lingua e linguaggio. Lo studio della lingua porta alla frammentazione della parlata in parole e frasi, alla formulazione delle regole, alla redazione dei vocabolari e delle grammatiche, conformemente alla logica: si risolve cioè nell'analisi scientifica. Altro è invece il linguaggio: questo è espressione dei contenuti psichici più propri, è espressione vocale dell'interiorità (innere Sprachform) dell'uomo. Il linguaggio non si riporta alla mediazione della logica e della riflessione, ma enuncia e denunzia direttamente la visione che l'uomo si fa dei dati del mondo, la maniera con cui li individualizza, li coglie (anche concettualmente) come suoi e vi si rapporta. In proposito si ricordi la celeberrima formulazione humboldtiana: «Il linguaggio non è un'opera (ergon), ma un'attività (energeia)». Il linguaggio dunque è un mezzo con cui il singolo conosce, e, conoscendoli, si inserisce tra gli uomini e le cose. Sia pure con incertezze ed oscurità, già in Humboldt si va facendo inoltre strada la convinzione che tra linguaggio e pensiero non ci sia alcun hiatus, che linguaggio e pensiero siano inestricabilmente uniti.

Da Humboldt deriva un altro grande filone di studi che, affiancandosi od esplicitamente immettendosi nell'ampio alveo della fenomenologia tedesca, arriva fino ai nostri giorni. Ci limitiamo in proposito a ricordare Hans LIPPS (1889-1941), Karl VOSSLER (1872-1949) — noto in Italia, tra l'altro, per l'interesse che portò all'estetica crociana — e soprattutto Ernst CASSIRER (1874-1945).

In Cassirer (Philosophie der symbolischen Formen, 1923, Sprache und Mythos, 1925) ancor più esplicitamente il linguaggio viene inteso come espressore di noi stessi, come mezzo con cui l'uomo obbiettiva i propri stati psichici, dai più semplici ai più complessi. L'uomo soggiace sempre a quest'intima tendenza ad obbiettivarsi: quando gli venisse a mancare in questo la parola, gli resterebbero gli altri mezzi espressivi, la mimica o il gesto, o più generalmente l'agire. E' chiaro che così facendo egli però sempre rivela se stesso in rapporto agli altri, con e nella comunicazione. Se diversi sono i mezzi con cui egli soddisfa la sua tendenza all'obbiettivazione, è altrettanto vero ch'è soprattutto col linguaggio ch'egli meglio vi riesce. Il linguaggio dell'uomo, a differenza di quello degli animali che pur possiedono dei mezzi vocali, è un linguaggio essenzialmente simbolico (simbolico proprio nel senso etimologico del termine), giacché ad ogni sua espressione inerisce un significato che si riporta sia a chi parla che a chi ascolta, e che, fondando il rapporto tra ego ed alter-ego e in genere tra io ed altro-da-sè, ne simboleggia appunto la relazione. Giustamente in proposito così scrivono GEMELLI e Zunini: «... a fondamento del simbolismo caratteristico del linguaggio sta la funzione propria del pensiero che consiste nel cogliere le relazioni». Al linguaggio dunque va ascritta una funzione cognitiva: mai estrinseco all'uomo, sorge

dall'attività umana tendente a cogliere tra l'infinità dei dati che si offrono ai suoi sensi ciò che essenzialmente si confà al modo in cui si declina, fissando questa essenzialità in forma appunto simbolica.

Tra i contemporanei che si iscrivono in quest'ordine d'interessi culturali, l'attenzione e l'interesse di Binswanger sono stati richiamati in particolare dalla figura di Gaston BACHELARD e dalla sua opera (in particolare: La psychanalyse du jeu, 1938, L'eau et les rêves, 1942, L'air et les songes, 1943, La terre et les rêveries du repos, 1948, ecc.).

Bachelard insegna ad orientarci nei significati simbolici che il linguaggio sa trarre dagli elementi della natura (il fuoco, l'aria, la terra, ecc.). Indicando come attraverso tali simboli esso sappia puntualmente esprimere i vari modi di essere del parlante e come alle diverse «conditions humaines» si addicano certe e non altre «correspondances» colla natura, suggerisce una nuova ermeneutica allo psicopatologo antropologicamente orientato. Tale ermeneutica sarà pur sempre un'interpretazione: ma non già riduttiva nel piano di una determinata «teoria» dell'uomo (come avviene nella psicoanalisi), bensì un'interpretazione vigilantemente modale, capace cioè di penetrare l'essenza del particolare modo di essere preso in esame e di illuminarlo, mantenendone intatte le sue qualità fenomeniche.

VI

Le premesse dottrinarie (non teoriche!) su cui s'impostò fin dall'inizio la fenomenologia psicopatologica binswangeriana (quand'era ancor ben distante dal configurarsi come metodologia antropoanalitica, come Daseinsanalyse) sono già espresse chiaramente nel lontano scritto Über Phänomenologie, del 1922-1923, di cui riportiamo qui (quasi alla lettera) alcuni passi conclusivi:

SCIENZA NATURALISTICA E FENOMENOLOGICA

«1) Il conoscere a cui si giunge ponendosi nel piano delle scienze naturalistiche, parte dalla percezione sensoriale (esterna od interna) di cose o di eventi reali (sia corporei che psichici). Da qui l'atto conoscitivo procede sulla via di una scomposizione concettuale in proprietà elementi funzioni, per pervenire ad una teoria scientifica ed in definitiva alla formulazione di una legge naturale.

2) Il conoscere fenomenologico, invece, parte dalla percezione sovrasensoriale o categoriale di «modi» o «essenze» o «forme» non reali (ma non per questo, sia teoricamente che metafisicamente, ideali!).

Sinonimi della percezione o intuizione (Anschauung) categoriale sono: l'intuizione fenomenologica, l'ideazione astraente, la visione modale (.Wesenschau).

I «modi» (o «essenze» — Wesen) sono gli oggetti che immediatamente «si danno» all'atto della percezione categoriale, così come le cose reali sono gli oggetti immediati della percezione sensoriale.

Si può parlare di «modi» estetici, intellettuali e via dicendo. Le essenze modali posson venir colte nelle manifestazioni fattuali della natura, nelle forme dell'arte,

nelle «immaginazioni» della libera fantasia, eccetera. E' da dire che un tempo si cercava di far risalire quella che oggi il fenomenologo chiama percezione sovrasenso riale delle essenze (Wesenschau) alla funzione associativa, oppure al meccanismo delle sinestesie o al giuoco dei «sentimenti».

3) Come la conoscenza concettuale delle scienze naturalistiche si costruisce sulla percezione sensoriale delle cose della natura, così la conoscenza concettuale fenomenologica o eidetica, si costruisce sulla percezione sovrasensoriale delle essenze, dei modi. Questa conoscenza però — in quanto puramente illuminativa — si limita alle formulazioni di enunciati essenziali e al riconoscimento dei nessi che li legano; evita, per contro, rigorosamente di contaminarsi comunque con teorie di qualsivoglia genere, ed in particolare con qualsiasi teoria spiegativa.

4) Ne segue che i modi colti colla percezione categoriale sono delle forme o modi di pura coscienza, affrancati da qualsiasi aggiunta teoretica».

Non è chi non veda quanto siano puntualmente debitrici queste formulazioni al pensiero husserliano. Anzitutto è facile riconoscervi come antefatto la polemica contro lo psicologismo ed in genere contro il naturalismo. Si è già ben oltre Brentano: il «fatto» psichico non è soltanto radicalmente discriminabile dal «fatto» fisico-naturale perché il suo contenuto è intenzionalmente riferito alla coscienza, intesa come un'istanza cui spetta l'attributo, appunto, dell'intenzionalità. Qui la coscienza è intesa nel suo superarsi, nel suo trascendersi nell'oggetto e l'oggetto è inteso come oggetto trascendente; l'accento non cade più nell'una o nell'altra istanza, né alternativamente su entrambe. L'oggetto si manifesta e si rivela proprio nel suo rapportarsi alla coscienza, nel modo, nella forma della sua trascendenza. E' questo modo, questa forma, quest'essenziale oggettualità ch'è indicata come l'argomento del conoscere fenomenologico. Come in Husserl, nelle formulazioni suddette si riconosce inoltre l'esigenza di sottrarsi da qualsiasi pregiudiziale teoretica (e Binswanger dirà molti anni dopo — e lo si ! è già ricordato — che «la Daseinsanalyse è teoreticamente a-teoretica»), proprio perché sia salva da qualsivoglia ipostatizzazione riducente la fenomenicità dei fenomeni che l'analisi investe. Come in Husserl si sottolinea l'esigenza di un'altra modalità del conoscere, di un «percepire» che sia altro dal percepire sensoriale, di un percepire dunque sovrasensoriale, categoriale, modale. Si nota il disinteresse per il principio di causalità e per le spiegazioni che a questo principio si riferiscono, queste essendo sempre estrinseche ed estranee ai fenomeni con cui si palesa l'umano.

Dopo questo scritto programmatico (quasi un «manifesto»!) «Sulla Fenomenologia», dovranno passare parecchi anni prima che Binswanger — dichiaratamente partito dalle fonti husserliane — si decida e riesca a dettarsi un metodo analitico. Come si disse, fu l'incontro con Heidegger (l'Heidegger di Sein und Zeit - 1927 e di Vom Wesen des Grundes - 1929) a dischiudergli questa possibilità. La fenomenologia binswangeriana diventa, con questo incontro, fenomenologia antropologica, e da ultimo Daseinsanalyse.

«Con Heidegger — scrive il nostro — l'intenzionalità di Husserl si curva a Dasein. L'ego trascendentale husserliano si declina nella fatticità dell'esserci. L'essere della presenza viene additato nella sua trascendenza, cioè nel suo essere-nel-mondo». E' in quest'ultimo fondamentale enunciato heideggeriano che Binswanger ha riconosciuto finalmente una valida impostazione del problema del cosa sia l'essente {Wossein) nella sua trascendentale oggettività, del cosa in definitiva siamo noi stessi, noi uomini.

«Con la dottrina di Heidegger dell'essere-nel-mondo come trascendenza è stato vinto finalmente il cancro che corrodeva tutte le precedenti psicologie, e cioè la scissione del mondo in soggetto ed oggetto, e si è finalmente aperta la strada all'antropologia. Nelle basi dottrinarie delle precedenti psicologie, infatti, l'umana presenza è ridotta a nudo soggetto, monco del suo mondo, nel quale «soggetto» succedono tutti i possibili processi, eventi, funzioni, che ha tutte le possibili caratteristiche o che compie tutti i possibili atti, ma di cui nessuno è veramente in grado di dire — salvo supporlo meramente attraverso costruzioni teoriche — come possa incontrarsi con un «oggetto» e comunicare ed accordarsi con altri soggetti. Invero, e per dirla in breve, essere-nel-mondo significa sempre in pari tempo essere-nel-mondo-coi miei simili, vuol dire che la mia presenza è con le altre presenze. Enunciando la trascendenza come essere-nel-mondo, Heidegger non soltanto ha superato l'opposizione scientistica tra soggetto ed oggetto, non soltanto ha colmato il solco che li spartiva, ma ha fatto ben di più: ha illuminato la soggettività come trascendenza, ha aperto un nuovo orizzonte alla comprensione antropologica e dei particolari modi di essere dell'uomo. Con lui al posto della dissociazione dell'essere umano in soggetto (individuo, persona) ed oggetto (cosa, ambiente, ecc.) si rileva in primo piano quell'unità presenza-mondo che la trascendenza garantisce».

«Dalla scoperta e dalla definizione di questo rapporto modale di base, la Daseinsanalyse ha attinto le sue sollecitazioni maggiori, nonché le sue direttive metodologiche. Essa però non è un'ontologia né una filosofia... Non formula alcuna tesi ontologica ma soltanto degli enunciati ontici: enunciati, cioè, che derivano da constatazioni fattuali sulle forme (Gestalten) della presenza, quali di fatto si presentano».

Ma oltre a questa impostazione di principio, nettamente heideggeriana, che additava come argomento della penetrazione antropoanalitica non più l'astratto uomo delle precedenti psicologie (di cui è esempio l'homo-natura della teoria psicoanalitica) ma l'homo-existentia, cioè l'essere dell'uomo salvato e garantito nella sua umanità di fronte a qualsivoglia ipostatizzazione scientistica riducente, come procedere nell'analisi della presenza nelle sue tante e tante configurazioni fattuali?

La presenza, il Dasein — Binswanger non si stanca di ripeterlo — «è anzitutto globalità umana, che comprende in sé anima e corpo, cosciente ed incosciente, pensiero ed azione, emotività affettività ed istinto». E' l'essere globale dell'uomo che si è trasceso in una determinata situazione; è la fatticità dell'esistenza come si offre nel suo adesso e nel suo dove, contemporaneamente schiudendosi al mondo e progettandolo come proprio, in una parola come è nel mondo. Non è soltanto un esser-presenti (Vorhandensein): nel presente della presenza infatti si compendia pure il futuro, il suo poter-essere (Sein-können), e il passato, il suo esser-già-stata (Gewesen-sein). Infatti se la presenza è un anticiparsi, questa possibilità di futuro non è un insieme di generiche possibilità, ma di determinate possibilità che trovano la loro determinazione in ciò e da ciò ch'essa già fu.

«Nel fondo», dunque, la presenza è ciò ch'è già sempre stata. Si testimonia però, nel suo continuo rivelarsi nel tempo, in varie maniere, in vari modi di essere, il cui articolato continuum costituisce la sua stessa storia.

Assunto dunque dell'antropoanalisi è l'indagine dei modi con cui si rivela l'umana presenza nella sua inscindibile globalità, ed in particolare jgli aspetti costitutivi di questi modi: dunque lo studio delle diverse maniere del suo trascendersi fattuale, indipendentemente dalla considerazione che si tratti della presenza di un «sano» o di un «malato di mente». Anzi l'antinomia sano-malato, centralmente necessaria nel campo clinico, resta del tutto estranea all'interesse dell'antropoanalista che s'interessa dell'umano indipendentemente dal giudizio di «sanità» o di «morbosità», e che ritiene pertanto i «mondi» del malato di mente, al pari di quelli del «sano», delle rivelazioni (per quanto disgraziate, per quanto tragiche) del possibile dell'uomo. Appunto in quanto uomo, anche lo psicosico non può non progettarsi in un mondo, resta comunque un essere weltbildend. Questa enunciazione, che ricorre frequentissima nei testi antropoanalitici, è da ritenere come sommamente importante. Essa infatti in sostanza afferma che le malattie mentali (la schizofrenia, la melancolia. la mania, le perversioni, ecc.) nella loro più intima essenza sono delle possibilità umane. E proprio per questo che l'antropoanalisi non può sostituirsi alla clinica psichiatrica: giacché solo a questa spetta di «giudicare» ciò che dev'essere ritenuto «sano» e ciò che dev'essere invece ritenuto «morboso».

Se è vero, com'è vero, che l'uomo è multicategoriale, a questo punto si riproponeva il problema della normalità. E' altresì chiaro che se negli indirizzi costituzionalistici, caratterologici, tipologici (KLAGES, KRETSCHMER, ecc.) la risoluzione di tale problema non poteva non volgere verso la definizione di astratte costituzioni, caratteri, tipi, ecc., nel piano antropoanalitico non poteva non porsi se non come problema della normatività che regge le diverse maniere di essere dell'umana presenza. E' su questo punto forse più che altrove che la Daseinsanalyse schiettamente si palesa come antropologia. Heidegger, del resto, distinguendo ed opponendo l'uomo «autentico» (il Mann) all'uomo «non autentico», anonimo, neutro (il man), non ha forse schiuso un orizzonte all'antropologo ? Questa distinzione fondamentale Binswanger, necessitato all'antropologia, ritenne: ma non gli sembrò sufficiente.

La consuetudine coi malati e, per altri versi, la stessa prassi psicoanalitica lo fecero persuaso che nelle neurosi e nelle psicosi, più ancora della «preoccupazione» del mondo, veniva a rivestire un ruolo fondamentale la carenza di «amore». L'alienazione, in definitiva, che cos'è mai altro se non radicale impediménto ad essere insieme-con-un-altro in reciprocità? Il suo maestro BLEULER, pur presumendo come valido il piano dell'«associazionismo» ma in definitiva muovendosi in quello dell'umano, non aveva forse colto in proposito ben altro e ben di più di quello che ragionevolmente si poteva presumere potesse essergli offerto dal suo teoretico punto di vista, quando indicò neWautismo — questo radicale isolamento — l'essenza della schizofrenia, la «malattia mentale» per eccellenza ? Non è forse il maximum dell'alienazione questo essere nell'autismo che preclude ogni valida possibilità coesistentiva ?

Così Binswanger oppose (o meglio: pose accanto) alla Sorge heideggeriana il Miteinander-sein-in-der-Liebe, l'essere-insieme-neW amore.

L'antropologia fenomenologica modale trovava così i parametri fondamentali entro cui muoversi e formularsi: la «povertà» estrema e la «ricchezza» estrema dell'esistenza, la massima remora ad attuare se stessi dell'autismo schizofrenico e la massima possibilità di rivelare la propria ipseità nell'amore. Come l'uomo progetta il mondo, come suo «mondo» in queste fondamentali e diverse maniere d'essere? Fu in definitiva questo interrogativo — oltre le tante e tante persuasioni che gli provennero dall'annoso esercizio pratico di alienista, e da una vastissima informazione dottrinale, e più ancora forse dai fecondi rapporti di amicizia con alcuni dei più illustri rappresentanti della cultura europea (tra cui in primis, come si disse, Freud) 57 — a sollecitare Binswanger nella stesura della sua opera dottrinale maggiore: Grundformen und Erkenntnis menschlichen Daseins - 1942 (di cui parecchi anni fa chi scrive dette ampio ragguaglio, cercando di dar veste e corrispondenza italiane alla sua lezione antropofenomenologica) .

Binswanger, in quest'opera (la cui conoscenza è assolutamente indispensabile per chi voglia seriamente occuparsi di Daseinsanalyse), riconosceva come fondamentali forme dell'umana presenza: il modo di essere insieme nell'amore e nell'amicizia (Das liebende und das freundschaftliche Miteinander sein), come quelli che dischiudono massimamente o, rispettivamente, in parte, la «grazia» della completa attuazione e rivelazione di se stessi; il modo generale ed ubiquitario dell'aggressività (Das Mitsein von Einem und den Andern), in cui domina più o meno incontrastata la maneggiabilità, il prendere e l'esser presi da qualche parte, nelle sue tante e così varie accezioni (il prendere fisicamente colla mano o coi denti — l'incorporare mordendo —; il prendere colla percezione — il comprendere — oppure colla parola che denomina e giudica; il prendere dal lato dell'impressionabilità oppure della suggestionabilità; il prendere dalla parte della fama oppure dal lato della responsabilità, ecc.) ; il modo di essere con se stessi (Zu-sich-selbst-sein), nel dialogo interiore; ed infine, il modo di essere per il proprio fondo (Das Sein zum Grunde, als meinem).

Ad ognuno di questi modi corrisponde una valida norma a cui essi si adeguano e che li sottende. Questa norma si annuncia attraverso gli aspetti con cui essi si rivelano. Ad ognuno di essi infatti corrisponde una particolare temporalità e spazialità, una particolare materialità o consistenza, un particolare colorito, un particolare movimento, una particolare determinazione timica, quella certa e non altra Stimmung, soprattutto un particolare linguaggio.

Dice Binswanger: «Se voi mi chiedete quando sia possibile imbattersi in un linguaggio che sia un semplice susseguirsi di suoni inarticolati del tutto avulso dal pensiero, io vi rispondo: solo nel pappagallo. E se mi chiedete ancora se ci sia nel mondo un pensiero che sia pura espressione dello spirito e del tutto isolato da ciò che si chiama linguaggio, io vi rispondo: mai... Infatti dove c'è il linguaggio là c'è il mondo... Se infine mi chiedete ove il linguaggio si presenti come espressività significativa, cioè come partecipazione e specificazione sonora di pensieri, come domanda e risposta su qualche cosa, in breve, come colloquio, io vi rispondo: soltanto nell'uomo».

L'uomo però — questo essere multicategoriale — usa il linguaggio in tanti modi: non ha un solo linguaggio anche se usa una sola lingua. Il suo parlare è diverso e diversamente si specifica a seconda del Tu a cui si rivolge, a seconda del come si attua il colloquio interumano, a seconda i dell'ampiezza e dell'apertura in cui questo si svolge, in breve a seconda di come è la presenza di chi-è-nel-mondo. Diverso è il linguaggio nei vari modi dell'aggressività, del prendere — e dell'esser-presi — da qualche parte ; altro quello con cui si partecipa alla gioia od al dolore altrui; e così altro quello dell'entusiasmo o della paura; eccetera. Diverso è il linguaggio con cui si parla a se stessi, nel colloquio interiore, da quello con cui si interroga il proprio fondo. Particolare e sui generis è poi il linguaggio dell'amore (così povero di parole e così straordinariamente ricco di significati).64

L'intenzione a significare — per eccellenza costitutiva dell'umano — non cessa neppure nel sogno. E neppure nelle situazioni di grave nocumento encefalico (come, ad esempio, nei gravi traumatizzati cranici, nei gravi intossicati, negli afasici, ecc.): anche se allora le corrispettive manifestazioni della parlata (o più genericamente dell'esprimersi), considerate estrinsecamente al com'è l'individuo, possano apparire confuse, distorte, devianti, elementarizzate, semplificate, ecc. L'intenzione a significare non flette neppure nel misterioso ed enigmatico parlare di certi schizofrenici: anche se, considerato al di fuori dell'in-sè modale del mondo autistico, questo linguaggio possa apparire discordante, rilassato, deragliante, dissociato. In una parola, nell’uomo l'intenzione a rivelarsi significando non cessa mai, anche se la lingua può apparire più o meno impedita nella sua strumentalità anatomo-fisiologica o psicologica. E' il modo di esprimersi che cambia: il che vuol dire anche ch'è il suo «mondo» che cambia, il suo modo di essere.65

Allorché ci assumiamo il compito di cogliere la presenza altrui nella strutturata globalità della sua trascendenza, nel suo essere-nel-mondo, nel suo in-sè fenomenico-modale, il primo problema che si affaccia è quello di cercare l'adito attraverso cui poterne cogliere l'essenza. Nella stragrande maggioranza dei casi quest'adito ci è offerto appunto dalle sue manifestazioni linguistiche e comunque sempre dalle sue manifestazioni in genere espressive. Finché parla o si esprime, la parola dice sempre del parlante. E' per questo che il linguaggio viene assunto dalla metodologia antropoanalitica come l'infallibile rivelatore e maestro dell’umano. Citando liberamente MERLEAU PONTY, potremmo ripetere che il linguaggio è la testimonianza sicura di quanto l'essere-uomo ecceda il suo essere-naturalmente. Esso infatti lo promuove da specimen della specie a cui appartiene a protagonista della propria storia, insomma lo testimonia e Io valida appunto

come uomo. Da cui l'importanza somma che la linguistica viene ad assumere nella Daseinsanalyse.

E' l'espressività quella che rivela il «mondo» della presenza. E' il suo messaggio che permette di cogliere l'essenza di un modo di essere altrui, sia questo di un «sano» che di un «malato di mente».

La Daseinsanalyse, però, di fronte ad una forma umana che imprenda ad analizzare, non si limita a raccogliere quanto casualmente ed occasionalmente viene da questa espresso. Si propone d'interrogarla metodicamente (per quanto in modo radicalmente diverso dai metodi della semeiotica psichiatrica tradizionale).

Sempre riallacciandosi alla base ontologica indicata da Heidegger, la antropoanalisi punta di volta in volta la sua luce verso questo o quello dei tre termini (non elementi!) in cui si articola l'unitaria struttura dell'essere-nel-mondo. Di «chi» — «è-nel» — «mondo» vuole di volta in volta comprendere: le modalità del «mondanizzarsi» della presenza (Mun- danisierung, Weltlichung), l'essenza del suo progetto mondano (Weltlichkeit), il «verso dove» si declina e si dispiega ( Woraujzu), il «cosa» (Was) attinge nel suo trascendersi; il «come» (Wie) del suo «essere-in» questo suo mondo (Insein); il «chi» (Wer) vi si è trasceso, cioè l'essente stesso, cioè il «da dove» ( Wovon) procede l'esserci.

Se il «chi», il «come» e il «mondo» sono i tre termini in cui l'analisi si ripromette di illuminare (il suo «comprendere» è in definitiva una illuminazione modale - Erhellung) l'essenzialità di un'altrui presenza, a nessuno venga in mente di pensare che questa meta venga attinta da una sommazione di quanto si giunge a cogliere dall'analisi di ciascuno di questi tre argomenti base. Si tratta infatti pur sempre di un argomento unico e cioè l'umano Dasein; l'analisi di ognuno dei tre termini contribuisce ad illuminare ed a sollecitare la penetrazione fenomenologica degli altri, e quella di ognuno il tutto, e quella del tutto ognuno.

Il metodo antropoanalitico non si arresta a questo. Sempre sulla scorta delle manifestazioni espressive pazientemente raccolte e con estremo rispetto della parola (affinchè i contenuti siano annotati e ritenuti non come nudi contenuti ma nella loro intrinseca modalità!), esso si ripromette di indagare la presenza attraverso gli aditi ch'essa ostende alla comprensione antropo-fenomenologica.

Anzitutto attraverso i due fondamentali aditi categoriali dell'esistere: il suo temporalizzarsi (Zeitigung) e la sua temporalità (Zeitlichkeit) (e qui sia ricordato il famoso postulato heideggeriano: «La presenza è per quanto si temporalizza»), il suo spazializzarsi (Räumlichung) e la sua spazialità (Räumlichkeit). Ed inoltre: la materialità, la consistenza (Materialität, Konsistenz) del «mondo» altrui; e la sua movimentazione (Beweglichkeit) ; e la sua luminosità (Belichtung); e la sua colorazione (Färbung); ed il suo orientamento (Berichtetsein) ; e la sua specifica Stimmung (Gestimmtheit), ecc.

Tutte queste istanze sono da intendersi — beninteso! — non come degli attributi della presenza, non come delle sue «caratteristiche», cioè, in breve, non come un suo «avere»: ma come degli aspetti costitutivi con cui si rivela il suo «essere», ognuno dei quali la manifesta nella sua interezza, per quanto in un particolare segno.

E neppure così cessa la metodica esplorazione antropoanalitica. La presenza umana — lo si è ripetuto più volte — è multicategoriale: se il suo fondo resta sempre lo stesso, essa si declina e si progetta variamente, in tanti modi, nel suo dispiegarsi storico, nella sua storicità (Geschichtlichkeit). Dovrà pertanto l'antropoanalista indicare e rilevare le varie modalità con cui si è trascesa, cioè il realizzarsi dei suoi diversi possibili.

Anche le diverse manifestazioni dell'alienità (le manie, le melancolie, le schizofrenie, le psiconeurosi anancastiche, le epilessie, le confusioni mentali, ecc. ecc.) hanno il loro linguaggio. I malati mentali sono degli schizofrenici, maniaci, melancolici, anancastici, ecc., non hanno la schizofrenia, la mania, la melancolia o gli anancasmi, ecc. La malattia mentale, proprio nel suo esprimersi, si riporta alla sfera dell'essere, non dell'avere. Gli psicotici proprio perché si esprimono ed in quanto si esprimono, testimoniano la loro presenza come una delle possibili dell'umano, per quanto estrema possa apparire questa possibilità esistentiva, per quanto disgraziata (cioè senza la «grazia» della communio e senza neppure l'apertura alla presa in reciprocità con gli altri).

Il comprendere antropoanalitico schiude un valico, per quanto arduo, a questi «mondi» che sembravano negati alla possibilità della comprensione. Per poter penetrare per questo valico nel misterioso paese dell'alienità, bisogna però preliminarmente accettare quella rivoluzione davvero copernicana che Husserl ha additato all'indagine, quel capovolgimento metodologico che indica come valida per l'umano un'altra obbiettività, ben diversa da quella dello scientismo naturalistico. Se questo è fondato sulla artificiosa scissione tra Io e Mondo, la fenomenologia antropologica segnala come tema d'indagine l'inscindibile e strutturata globalità dell'umana presenza, il suo essere, cioè l'esistenza come essere-nel-mondo.

Ora l'indagine della presenza si identifica coll'analisi dei modi con cui essa si esprime. Tuttavia c'è una possibilità (per quanto si tratti di un hegativo) in cui il linguaggio dell’uomo radicalmente tace: ed è l'essere-nell-angoscia.

VII

In psichiatria l'angoscia viene considerata un sintomo come tanti altri, anche se vi si ascrive un'importanza notevolissima, data la frequenza con cui viene osservato specie nelle fasi d'introito dei diversi quadri e la rilevanza e varietà delle sue correlazioni somatopsichiche o schiettamente psicopatologiche. Nell'ambito della psichiatria funzionalistica essa viene ricondotta, com'è noto, ad un disturbo delle funzioni affettive, della sfera timica; ed in questo piano ne vengono descritte la dinamica, la penosità drammatica e la sgradevolezza estrema.

Ma nel piano antropoanalitico non è possibile parlare di angoscia come di un qualche cosa che capita nella «psiche» del malato o di un «disturbo» di una funzione dell'«apparato psichico»; e neppure della risultanza di uno scontro con una istanza avversa proveniente da! mondo in cui il soggetto vive. Il fenomeno dell'angoscia si estolle dalla possibilità di una comprensione adeguata non solo quando si tenta di condurre questa comprensione nel piano anatomo-fisiologico, ma anche in quello strettamente psicologico-naturalistico.68

«L'angoscia — scrive Binswanger — non è nel fondo né un sentimento né un affetto, ma è espressione dell'angoscia della presenza (Daseinsangst): dello svuotamento dell'esserci nel senso di una progressiva perdita di se stessi».69 Essa quindi non può essere indagata che sul piano strettamente antropologico, in quanto è un fenomeno che si riferisce per eccellenza all'umanità dell'uomo. L'angoscia infatti è immanente all'esserci, al «mondo» in cui la presenza si esprime ed al «chi» della presenza ed al «come» l'ipseità si rivela. Si dà infatti quando l'essere della presenza (ch'è quanto dire la sua esistenza), il suo essere-nel-mondo, è minacciato nella sua esistentività ; quando la presenza tende a perdere il proprio «mondo», in una parola quand’essa è minacciata di diventare una nuda presenza mutila di ogni possibilità di declinarsi con chicchessia e in qualsivoglia modo.

L'angoscia infatti si affaccia tutte le volte che il «mondo» massimamente si coarta, si restringe, si impoverisce, tende a perdere di consistenza e di rilevanza significativa. La presenza allora, perso ogni sostegno ed appiglio, vacilla, traballa, si affloscia (si badi di non intendere queste espressioni soltanto come metaforiche, esse infatti esprimono immediate e inderivabili qualità dell'umano!): in una parola, «si angoscia».

L'angoscia intesa nel piano antropologico (ed è il solo piano in cui può «autocomprendersi»!) è dunque l'angoscia della presenza che si affaccia all'orrore del nulla. Si è detto, che «mondo» e «se stesso» non sono che due termini di quell'articolata struttura unitaria ch'è l'essere-nel- mondo, e che non può vanificarsi l'uno senza che contemporaneamente si vanifichi anche l'altro: nell'angoscia infatti affondano entrambi.

E poiché dove c'è il «mondo» là c'è anche il linguaggio, ecco che l'angoscia — questo approssimarsi al nulla che coinvolge tutta la presenza (sia nella cristallizzazione del suo già-esser-stata, come nel suo presente e nella prospettiva anticipante del suo futuro; sia nei «suoi» affetti e sentimenti, che nei «suoi» pensieri e nelle «sue» memorie ; nel suo «inconscio» e nella sua «coscienza» ; eccetera) — è un fenomeno di per se stesso ineffabile. L'angoscia infatti è una Ve rivettile hung, una smondanizzazione ; si dà appunto quando il «mondo» non parla più dell'essente ed all'essente, quando appunto questi non può più esprimersi. Dice LAVELLE (Le moi et son destin - 1936): «L'angoscia paralizza la parola e davanti ad essa tace ogni enunciato positivo, perché è impossibile ch'essa riceva una determinazione, in quanto supera la nostra persona per metterci di fronte al fondo stesso dell'esistenza».

Quando ritorna la possibilità di un enunciato positivo, non importa se espresso in chiari termini verbali o anche solo in qualche altra delle varie modalità espressive (quali possono essere, per esempio, le manifestazioni somatiche dell'angoscia cardiaca o respiratoria o epigastrica, ecc.), l'angoscia non c'è già più: con la parola parlata o anche solo allusa, col linguaggio della corporalità (ansietà precordiale, respiratoria, epigastrica, ecc.) o col sintomo psicopatologico (una paralisi isterica, un'emergenza fobica, ossessiva od impulsiva, ecc.), il mondo si è comunque ricostituito e con esso l'essere della presenza, cioè la sua esistenza.

La presenza, come trascendenza, come essere-nel-mondo, è un temporalizzarsi (Zeitlichung). La sua temporalizzazione non deve esser considerata un attributo che la designa (v.i.). La stessa presenza è una temporalizzazione, è il precorrersi dell'essente nel futuro in una determinata temporalità (Zeitlichkeit): «Il 'mondo' è nella misura in cui la presenza si temporalizza».

E poiché la temporalità, qual che si sia. si riporta anche ad un continuum temporale, ne segue che l'angoscia — questa radicale smondanizzazione — non può essere in alcun modo ricondotta alla categoria della continuità. Nel momento stesso che la presenza si riafferma, magari nella e colla pena di un sintomo psicopatologico, essa si ricostituisce in una sua temporalità; ed allora l'angoscia non c'è più. Il suo (negativo) aspetto temporale è quello dell'improvvisità. Anzi angoscia ed improvvisità non sono che una cosa sola: due termini intercambiabili per designare questo cruciale fenomeno, l'uno di carattere psicologico o se si vuole psicopatologico, l'altro propriamente antropologico o meglio esistenziale. Binswanger cita volentieri in proposito KIERKEGAARD, che ha illuminato magistralmente tutto ciò nel seguente passo: «Ora c'è, subito dopo non c'è più ; ed appena se n'è andata, ecco che c'è di nuovo in pieno. E' impossibile ridurla alla categoria della continuità comunque intesa».

Da quanto detto finora risulta anzitutto chiaro che la fonte dell'angoscia è l'esistenza stessa. L'angoscia è infatti preclusione a tutti i valori; più precisamente, è radicale preclusione non solo all'essere-insieme-con qualcuno nell'amore o nell'amicizia o nella responsabilità liberamente assunta, ma anche e semplicemente ad essere-con-qualcuno in uno qualsiasi dei tanti modi del prendere e dell'esser-presi-da-qualche-parte con cui si configura la pluralità discorsiva dei nostri rimandi quotidiani. Essa dice di no alla maturazione (Reifung) del singolo, appunto per il no ch'essa dice ad ogni moto coesistenziale o coesistentivo. La presenza investita dall'angoscia non può quindi che ripetersi coattivamente. L'angoscia, in altre parole, non è pertanto che coatta ripetizione.

Per il suo carattere temporale di urgenza e d'improvvisità, l'angoscia infatti frammenta, lacera e alla fine vanifica ogni continuità, quella continuità che fonda la sicurezza della presenza, cioè quanto dire del mondo che è il suo «mondo ».

In clinica (e, in verità, anche nella vita di tutti i giorni, folta di nostri simili in condizioni esistenzialmente precarie), noi ritroviamo l'angoscia quando qualche cosa scuote profondamente le basi stesse dell'esistenza del singolo. Tanto più «povera» è l'individualità, tanto più essa è predestinata a questa suprema esperienza. Se, come si è detto, l'essere della presenza è la sua esistenza, il suo «esser-fuori», tanto più povera è una presenza quanto più limitate sono le categorie informandosi alle quali essa può mondanizzarsi, in cui può «diversamente» essere-con-qualcuno. La «salute» dell'essere-umano infatti è garantita dalla sua multicategorialità potenziale ed attuale. Quando un mondo in cui una individualità «ricca» si è declinata traballa, vacilla e tende a vanificarsi, questa dispone subito di altre possibilità per progettarsi altrimenti, in un mondo categorialmente diverso, a cui ineriscono un altro ordine strutturale ed un'altra globalità

significativa. Una individualità limitata alla sola categoria del pieno-e-» vuoto, com'è quella per esempio indicativa del carattere dell'avaro, è destinata all'angoscia ove la possibilità di riempirsi e trattenere venga a mancare; non il mondo della politica, non quello dell'arte e tanto meno della responsabilità, dell'amicizia o dell'amore si offrono ad essa quando la possibilità di risparmiare e lo stesso possesso vengano a mancarle. E così dicasi delle individualità devolute alla sola categoria della dipendenza (dell'unito-separato), come si nota per esempio in certi eccessivi legami tra figlio e madre o maestro e discepolo; oppure, a quella dell'esser sopra tutti o sotto tutti (aut Caesar aut nihil) ; o, nel campo schiettamente psicopatologico, alla sola categoria dell'esser coperto o scoperto (come per esempio in un caso da me illustrato di una giovane operaia che, salvo nei momenti del lavoro in fabbrica, ovunque, ma specialmente in pubblico era attanagliata dall'ossessione di esser nuda); e via dicendo.

Caratteristico è l'atteggiamento di Freud di fronte al problema in discorso, e rivelatore dell'antinomia profonda che separa la sua figura di pratico da quella di teorico. Di fronte ad un fenomeno per eccellenza denunziatore dell'umano (l'essere dell'uomo impossibilitato a trascendersi in esserci), la lezione del fondatore della psicoanalisi diventa in pari tempo più profonda e meno chiara. Soprattutto — e quasi inavvertibilmente — finisce per divergere sempre più da quell'impostazione meramente naturalistica che fin da principio aveva intransigentemente adottata: come subito vedremo.

La questione dell'angoscia è sempre stata centralissima nel pensiero di Freud. Oltre ad affiorare più o meno esplicitamente in tutta la sua vastissima opera, egli se ne è occupato ex professo in diversi suoi scritti, e tra i più impegnativi.

Comunque si giudichi la psicoanalisi, non si può non riconoscere che gran parte della problematica moderna che si riferisce al tema in discorso rimonta o, quanto meno, passa attraverso Freud. Anzi si può asserire — senza discostarsi troppo dal vero — ch'egli ha costruito l'edificio della sua dottrina tenendo costantemente d'occhio questo fondamentale fenomeno; e che le diverse interpretazioni ch'egli successivamente ne ha dato, si riportano puntualmente ai principali momenti che hanno contraddistinto lo sviluppo delle tesi psicoanalitiche. Integrare i diversi passi dei suoi testi che si riferiscono all'argomento (specie quelli cronologicamente più discosti l'uno dall'altro) è un'impresa assai difficile. Chi volesse tentarla s'imbatterebbe in continui dubbi interpretativi: non tanto, forse, di fronte alle inevitabili oscurità e persino contraddizioni di un pensiero teso e costantemente in fieri, quanto piuttosto per la difficoltà di comporre in un unico i diversi linguaggi con cui Freud si è di volta in volta espresso.

Meglio pertanto (specie in questa sede) rilevare ed ordinare i vari problemi ch'egli si è successivamente posto, e le soluzioni (il più spesso, per sua esplicita dichiarazione, provvisorie) ch'egli ne ha suggerito.

Prima concezione riferibile all'epoca del lontano scritto sulla Angstneurose (A)).

Freud rileva che lìangoscia neurotica appare con straordinaria frequenza nelle persone che sono soggette a delle frustrazioni sessuali (fidanzati e vedove che non possono soddisfare il loro sesso, spose di mariti sofferenti di impotenza sessuale o di eiaculazione precoce o praticanti il coito interrotto, ecc.). Ne deduce che la causa dell’angoscia è da ricercare nel bisogno sessuale insoddisfatto. La libido o, meglio, la pulsione libidica (in quest'epoca del pensiero freudiano intesa quasi come sinonimo d*"pulsione sessuale), già eccitata ed orientata verso un oggetto e per un motivo o per l'altro venuta ad esserne priva, diventa per la sua stessa sovratensione incapace di acquietarsi: resta (per così dire) librata nell'aria, fluttuante, e genera a livello della coscienza lo stato affettivo dell'angoscia. L'Io, investito dall'evento, ne è in definitiva passiva vittima.

Per quanto elementare appaia oggi questa prima concezione, tuttavia dal suo nucleo sostanziale Freud non si è mai del tutto scostato. Basti qui preliminarmente rilevare e sottolineare che si tratta di una interpretazione dell’angoscia eminentemente energetica e somatogena. —

Seconda concezione (riferibile all'epoca delle prime Vorlesungen (V) e degli scritti immediatamente precedenti).

Ma di che cosa si angoscia propriamente, «realmente», l'Io? Freud cerca di avanzare nella risoluzione di questo problema paragonando l'angoscia «reale» (con cui egli intende riferirsi alla paura, razionalmente valida, per un oggetto davvero impaurente, per es. una fiera che si avanzi minacciosa) ali 'angoscia neurotica, negativamente contraddistinta per la sua indeterminazione oggettuale (angoscia propriamente detta.). Anzitutto l'angoscia comunque intesa, sia «reale» che «neurotica», ostacola l'individuo che la esperisce: quando raggiunge un certo grado, al posto di giovare come allarme e preparazione alla lotta, fa fuggire o inibisce l'individuo (cioè: paralizza l'Io), proprio quando questi avrebbe la necessità di disporre maggiormente di sè per affrontare adeguatamente il pericolo. Nell'essenza essa cela dunque sempre un alcunché di irrazionale; questa irrazionalità è particolarmente evidente teli'angoscia neurotica che appare destituita di qualsivoglia motivazione logica per quanto esigua.

Freud — che si professa sempre un naturalista — non può non porsi a questo punto il problema della causa. «Cosa» genera il fenomeno? Cos'è ciò di fronte a cui e per cui l'individuo si angoscia? (Anche in scritti assai più tardi dirà sempre: «L'angoscia è anzitutto un alcunché di percepito...» (H)). Se un «oggetto causale» non può non darsi e si esclude ch'esso sia posto fuori dell'individuo, ne segue che non potrà non essere un «qualche cosa» inscritto nell'intimo del suo organismo psichico, anche s'esso non riesce a denunciare la sua identità. E che mai può essere quest'istanza se non la libido? E' appunto essa che «realmente» impaurisce l'Io e lo angoscia. «Nell’angoscia neurotica l’io cerca di ... scappare colla fuga alle esigenze della libido... si comporta dunque di fronte ad un pericolo interiore come di fronte ad un pericolo esterno». (V).

Già da quanto fin qui si è detto si rileva facilmente che la seconda concezione freudiana è ben distante dall'essere quasi esclusivamente somatogena come la prima. Qui l'angoscia è intesa come espressione di un conflitto tra due istanze delll’organismo psichico, la libido e Fio. Ma le idee espresse al riguardo nella citata Vorlesung vanno ben oltre.

La risposta al quesito suesposto (la causa dell'angoscia è la libido) ne propone immediatamente (e logicamente) un altro: perché l'Io si impaurisce di fronte alla pulsione libidica e la fugge angosciandosi? Freud cerca di risolvere il problema sia riandando alla psicopatologia degli adulti sia a quella dell'infanzia.

Anzitutto si rifà al quadro dell'isteria d'angoscia, una forma psiconeurotica ch'egli stesso ha precedentemente isolato. Oggi qualsiasi psichiatra collocherebbe questo quadro tra le psiconeurosi fobiche e non già tra le isteriche, in quanto contraddistinto fondamentalmente da manifestazioni coatte di struttura prettamente fobica. Ma Freud insiste nell'impiegare anche per questa forma la designazione di isterica per porre delle analogie coll'isteria di conversione: come in questa F angoscia si «converte» nel sintomo organico (poniamo: una paralisi), così in quella «si converte» nel sintomo psichico (poniamo: la fobia dei topi). Da qui egli è portato a concludere che l’angoscia è uno stato affettivo penosissimo che tende, per la sua intollerabilità, specie se perdura, a convertirsi in manifestazioni morbose, appunto nei sintomi, sia di carattere organico che di carattere psichico. Questa conversione è un processo che spesso si dimostra reversibile, nel senso che allorquando si allontana o si eclissa il sintomo organico o psichico, contemporaneamente si riaffaccia o risorge l'angoscia.

Quasi corollario di questo enunciato è il seguente: l’Io teme di gran lunga più la oscura minaccia proveniente dall’interno del suo apparato psichico di quella di un oggetto posto all’esterno, anche se davvero impaurente, anche se assunto ed esperito mi giro di una dinamica fobica." Dunque la conversione significa in pari tempo una fuga dal limite minaccioso dell'istanza interiore, ineluttabilmente travolgente, e un salvataggio (per dir così) nel sintomo morboso. Giacché, mentre l'Io è paralizzato dalla libido che l'angoscia, né può di fronte ad essa minimamente testimoniarsi, nell'esperienza coatta sia pure in qualche modo agisce e si testimonia.

Ma perché l'Io è così debole — la domanda si ripropone — di fronte a quell'oscuro se stesso ch'è la sua libido, tanto che quand'essa impone perentoriamente le sue esigenze «fugge» nell'angoscia? Questo quesito fondamentale porta Freud a meditare sulla psicopatologia della prima infanzia. Si possono osservare fobie nei bambini? Sicuramente. Due in special modo: quella per l'oscurità e quella per il restar solo. Mancano invece (o sono estremamente infrequenti) quasi tutte le altre innumerevoli fobie che si osservano negli adulti. Anzi vicino a gran parte degli oggetti che dall'adulto possono essere assunti come temi fobici, il bambino si muove con estrema scioltezza. Non teme il precipizio (si pencola nel vuoto dai balconi), né il vuoto di una piazza né l'argine di un fiume né la movimentazione di una strada, maneggia strumenti pericolosi, non ha ripugnanza per gli animali, non è sfiorato dal significato del sudicio, ecc. ecc. A riguardo di queste e di tante altre istanze, che pur racchiudono un reale pericolo, egli si comporta con una disinvoltura tale da far pensare che la natura sia stata al riguardo ben poco provvida nel preservare la sua stessa incolumità fisica. Ma il buio e l'isolamento li teme massimamente e spessissimo in senso propriamente fobico.

Facili constatazioni analitiche accertano però che non il buio o l'isolamento di per se stessi sono oggetti causali delle fobie infantili ma piuttosto il significato loro inerente della scomparsa dell’imago materna. Anche l'angoscia che il bambino prova di fronte agli estranei, in fondo non è che la «paura» che il fondamentale oggetto della sua libido, cioè la madre, gli venga sottratto o anche solo spartito.

Questo punto della lezione freudiana è particolarmente importante giacché indica la genesi dell’angoscia non già soltanto in un disturbo energetico dell'apparato psichico (come nella primitiva concezione) ma più precisamente nella lacerazione di un'unità interumana, anche se molto prossima al livello biologico, cioè dell'unità madre-figlio. Il bambino — in cui la distinzione tra inconscio e conscio è molto incerta e sfumata — non sa (è ovvio) del perché della sua angoscia.

Da quanto sopra, Freud trae delle importantissime analogie con l'angoscia neurotica. Anche l’adulto non sa il perché del suo angosciarsi: e cioè perché l’oggetto della sua angoscia è sepolto, rimosso, nell’inconscio. Come e perché sia avvenuta questa rimozione Freud dirà meglio in scritti successivi. Ma già a questo enunciato si riporta un corollario altrettanto e forse più importante dell'enunciato stesso. E cioè l’qngoscia neurotica non è che la ripetizione di un'angoscia infantile, la ripetizione dell'esperienza di un sottratto ed insostituibile oggetto di amore.

Fin qui Freud delle prime Vorlesungen: ed è già un Freud molto maturo.

Non solo il fenomeno vi è inteso come ben più di un grave disturbo energetico nell'economia della libido; non solo la sua genesi è indicata in un conflitto, e precisamente nel conflitto tra l'Es e l'Io. V'è dell'altro. Ciò che dell'inconscio e dall'inconscio urge, non è soltanto indicato in una prepotente tensione istintuale: la prepotenza dell'«oggetto» che angoscia l'Io è dovuta più che alla sovraccarica di energia libidica che lo sollecita, al fatto ch'esso riveste un significato che si riporta ad un preciso Erlebnis, per quanto rimosso, inscritto profondamente nella storia dell'infanzia dell'individuo che si angoscia.

Terzaconcezione riferibile press'a poco all'epoca di Jenseits des Lustprinzips.

Freud si propone ancora e in altri termini il quesito del perché della debolezza dell'Io di fronte alle esigenze della libido. In questa sede, noi non possiamo seguirlo che di sfuggita nei suoi sforzi di spiegare questa fragilità in base a considerazioni anatomiche ed embriologiche. Risulta chiaro, in questi passi della sua lezione, come egli non abbia abbandonato per nulla l'anatomismo del suo maestro Meynert, né le tesi evoluzionistiche alla Jackson. Freud si appoggia alla teoria, allora dominante e dai più ritenuta valida, che indica la «sede» della coscienza nella corteccia cerebrale. A questa arrivano delle sollecitazioni provenienti dall'ambiente esterno e dall'interno dell'apparato psichico, quest'ultime essenzialmente apportatrici d'informazioni di piacere o di sofferenza. Per usare un linguaggio metapsicologico (come Freud stesso si esprime), la coscienza (che costituisce una porzione piuttosto esigua nel complesso di tutta la psiche) verrebbe a trovarsi così in una «posizione spaziale»: tra l'interno e l'esterno. La massima parte delle sollecitazioni, provenienti sia dal di dentro che dal di fuori, non raggiungono la coscienza; e sono proprio queste che, inscrivendosi nei sostrati inconsci, lasciano le traccie più durature e meno reversibili, specie per quanto concerne la memoria. Al contrario, le sollecitazioni che raggiungono i dispositivi preposti alla coscienza (e che si esauriscono in questi) «non producono alcuna modificazione durevole». Né potrebbe esser diversamente — argomenta Freud — altrimenti come spiegare l'inaudita possibilità e disponibilità della coscienza a mutare continuamente i propri stati? Orbene, tra le sollecitazioni che pur raggiungono la coscienza, quelle che vengono ritenute sono quelle che, per intensità o altro, riescono a superarne i dispositivi, per iscriversi, raggiungendoli, in quelli più profondi (dunque inconsci) dell'apparato psichico.

L'Io, l'istanza della coscienza, ristretto dalle sollecitazioni provenienti e dall'esterno e dall'interno, è ben più indifeso e minacciato di esser travolto dalle seconde (da cui non può fuggire) che dalle prime. Deriva da ciò la tendenza dell’lo — giusta il principio del piacere che domina tutta l'economia psichica individuale — «a trattare le eccitazioni provenienti dal di dentro come se provenissero dall'esterno, allo scopo di poter applicare loro quel mezzo di protezione ch'esso dispone nei confronti di quest'ultime»: distanziarle (e, in pari tempo, distanziarsi), obbiettivandole. E' in nuce la formulazione di uno degli enunciati fondamentali della psicoanalisi: la proiezione.

Ci sono delle situazioni psicopatclogiche che sembrano sottrarsi al principio del piacere, che vanno al di là (jenseits) di esso: esse ci riportano al problema dell'angoscia. Freud indica una di queste situazioni, per esempio, nella neurosi traumatica. Un trauma di rilevante intensità, imprevisto ed improvviso, rompe ogni barriera difensiva: la sua sollecitazione, rudemente avversa all'equilibrio dell'individuo, s'inscrive direttamente negli stati più profondi del suo organismo psichico. Questo, per difendersi, polarizza ogni sua energia sull'incidenza traumatica, depauperando di conseguenza le cariche energetiche delle altre istanze di cui è composto. L'angoscia, in questi casi, è lo scotto indispensabile perché F«organismo psichico» possa reintegrarsi in tutti i suoi aspetti. Ma perché questo? Freud dà la seguente spiegazione. Di fronte ad un oggetto esterno esperito come minaccioso, si instaura, nella coscienza dell'individuo, più o meno rapidamente ma non instantaneamente, quello stato affettivo d'allarme ch'è la paura («angoscia reale») ; anche l'angoscia neurotica, pur priva com'è di determinazione oggettuale, rappresenta il raggiungimento di un culmine che si profila gradualmente nel piano dell'Io. Ma nel caso della neurosi traumatica, l'improvvisità dell'insulto e la polarizzazione a difesa di tutte le cariche energetiche sulla sua incidenza non consentono che questa rielaborazione intrapsichica raggiunga il piano egoico. Si attuerà tuttavia lo stesso, ma nel piano dell'inconscio. Ed ecco che nel decorso clinico della neurosi traumatica compaiono i sogni d'incubo e di castigo, dunque i sogni angosciosi, in cui si stagliano delle situazioni complessuali strettamente pertinenti all'individuo. Questi dati di fatto, però, contraddicono la nozione che il processo onirico si adegui sempre al principio del piacere, che costituisca la realizzane inconscia di desideri profondi e inconfessati.

Questo punto della lezione freudiana ha un'importanza notevolissima. Esso ci dice le quando un individuo, per un'elementare necessità di sussistenza, è costretto a polarizzare ogni sua energia psichica nel più segreto fondo di se stesso e ad aggrapparsi a questo fondo, entrano in gioco — sia pure nel sogno — non già o non tanto i contenuti che si riferiscono alle contingenze esteriori in cui è avvenuto il trauma, ma i contenuti strettamente personali che rimandano a una sua antica e rimossa storia; che per ricostituire la sua integrità psichica l’individuo è costretto a rivivere (nell’angoscia!) queste antiche situazioni, operanti più che mai nel suo intimo e dunque, pur riferendosi ad un lontano o anche remoto passato, tutt'altro che sorpassate; infine che l'angoscia è un'esperienza per eccellenza indicativa dell'uomo (e non solo della sua natura) in quanto si riporta essenzialmente alla sua storia.

Quarta concezioni(riferibile soprattutto all'epoca dello scritto freudiano più esteso impegnativo sull'angoscia: Hemmung, Symptom und Angst (H), e delle Neue orlesungen (NV).

In quest'epoca la dottrina dell'evoluzione della libido nelle sue diverse fasi ha già da tempo avuta la sua enunciazione. Anche la dottrina degli istinti ha subito un ampio e, per tanti versi, radicale sviluppo. Freud ha già riconosciuto accanto agli istinti erotici anche gli istinti aggressivi, accanto agli istinti di vita anche gli istinti i morte; gli uni e gli altri sia rivolti verso il se stesso (narcisismo oppure masochismo) sia verso gli altri (amore oppure odio, aggressione, sadismo). Queste diverse imponenti della libido variamente convergono o divergono, s'impastano o si disimpastano; e le loro innumerevoli combinazioni (e differenze energetiche) giustificano la complessità estrema della vita psichica e le sue innumerevoli manifestazioni, sia normali che patologiche. Viene ripresa in considerazione la vita infantile in confronto quella degli adulti, specie neurotici. Ciò che nelle precedenti concezioni sull'angoscia dei bambini veniva riferito al rapporto madre-figlio ed in particolare al significato madre-presente oppure madre-assente, si complica di un altro fondamentale fattore: l'imago paterna, libidicamente ambivalente, in quanto contemporaneamente amata e odiata.

Un'altra importantissima concezione è già entrata, in quest'epoca, ad arricchire il corpus della dottrina freudiana, e cioè la concezione ternaria dell'apparato psichico, costituito non più da due, ma da tre istanze fondamentali: l'Es, l'Io ed il Super-Io. Non possiamo qui ricordare la genesi ed il significato che Freud attribuisce all'istanza superegoica. Basti qui ricordare che il Super-Io è inteso di origine prevalentemente inconscia: espressione di tutte le interdizioni che fin dai primi tempi di vita sono state indotte nel bambino, esso è soprattutto costituito dall'introiezione (inconscia) dell’imago paterna (castigatrice, punitrice e — in senso simbolico — castratrice).

Ed ecco Freud ancora di fronte al problema in discorso. Alla luce delle sue più nature conclusioni dottrinali, egli indica la genesi dell'angoscia in un conflitto svolgentesi fra tre «persone» la cui essenziale identità si nasconde nella «profondità» volontariamente inattingibile della persona adulta: il se stesso bambino, la madre id il padre della sua pristina infanzia. Questa situazione complessuale irrisolta e fissata nell'inconscio (per un processo subliminare di censura e di rimozione che in questa sede sarebbe troppo lungo riferire) è quella che «in realtà», anche se irriconoscibilmente per l'Io, ritorna il più spesso nell'angoscia (il cui significato quindi è di erede della situazione edipica).

Come si vede, in quest'ultima e più matura concezione freudiana fangoscia è intesa non solo come risultato a livello dell'Io di un conflitto endopsichico tra due istanze inconscie (totalmente l'una, e cioè l'Es, prevalentemente la seconda, cioè il Super-Io), ma più precisamente come la risultanza di un complesso rapporto inter-soggettivo (se proprio non si voglia dire interumano), ben distante dal potersi ridurre ad un contrasto di antitetiche energie pulsionali, giacche si riporta — ognora e comunque lo si consideri — alla categoria del significato.

Questo breve excursus nei testi freudiani che trattano dell'angoscia (che, per essere compilate col piano architettonico del presente scritto, si è dovuto limitare forse oltre il lecito) ci permette alcune constatazioni non prive di interesse.

Anzitutto si può tranquillamente affermare che il naturalismo sposato dal Freud dottrinario si rivela una base teorica del tutto inadeguata per il problema dell'angoscia. E' lui stesso che — soffermandosi a lungo nel corso della sua operosa vita su questo cruciale problema e indagandolo con quella eccezionale capacità di penetrazione che tutti sanno — ce ne dà l'indiretta prova. Si tolga pure dai suoi testi ogni formulazione energetica e pulsionalistica, si faccia persino a meno della nozione di libido: e ci si accorgerà facilmente che la sua lezione, in quanto ha di essenziale, si sosterrà egualmente. Infatti, s'egli parla spesso — contrapponendoli — di soggetto ed oggetto, di cariche energetiche dell'Es o del Super-Io o dell'Io e delle loro varie dislocazioni, eccetera, ciò che in definitiva tiene in moto F incessante e mai soddisfatta meditazione freudiana intorno all'angoscia è sempre l'interesse diretto per gli aspetti relazionali. Il rapporto infatti vi è ognora inteso come unità significativa tra i termini che lo fondano e che ne risultano indissolubilmente legati in una articolazione che potremmo definire dialogica. E' per eccellenza a proposito del problema dell'angoscia che Freud intende l'essere dell'uomo propriamente come un essere-nel-con- flitto. Che l'Io (il rappresentante della «realtà») si relazioni all'Es (questo oscuro rappresentante della sua più profonda ipseità) o con il Super-Ego (questo altrettanto oscuro «avvocato» dell'introiettato mondo esterno), e l'Es col Super-Io, e via dicendo,81 è pur sempre il rapportarsi di un qualcuno-con-qualche altro, in un'unità che trascende i due termini, ciò di cui Freud rileva ed indaga dinamica e struttura. Nella sua lezione l'angoscia, in fin dei fini, appare sempre come la risultanza di un'impedita od ostacolata articolazione coesistenti va.

Nella cultura contemporanea in genere (oltreché nella psicologia antropo-fenomenologica dei nostri giorni) si insiste nell'affermare che la fonte dell'angoscia è l'esistenza stessa. Freud addita questa fonte nella «natura» dell'uomo. Questa «natura» freudiana però riveste un significato del tutto particolare, come ci siamo sforzati più volte di illustrare nelle pagine precedenti: essa è ben distante infatti dal potersi identificare con quella degli scienziati naturalisti (che indagano oggetti semplicemente presenti nel mondo e destituiti di qualsiasi carattere intenzionale e più generalmente relazionale). Se Freud ha creduto sufficiente additare dell'uomo una sola tra le tante delle sue configurazioni categoriali, e cioè quella ch'egli chiama la sua «natura», è tuttavia innegabile che il suo metodo (ove sia purgato delle sovrastrutture dottrinarie che altro non sono se non dei postulati sfuggenti alla possibilità di validazione proprio nel piano metodologico delle scienze naturalistiche) resti — come meglio diremo più avanti — una geniale anticipazione di qualsiasi indirizzo che assuma come argomento di base gli aspetti relazionali con cui si pone sempre l'umano.

Chi scrive è persuaso che una meditazione delle tesi della psicoanalisi da un punto di vista antropoanalitico, meglio che da ogni altro punto dovrebbe cominciarsi dalle concezioni freudiane sull'angoscia.

VIII

Da quanto si è detto nelle pagine precedenti, si chiederà il lettore, alla fine, quale in sostanza sia la posizione di Binswanger (ed in genere della Daseinsanalyse) di fronte a Freud ed alla sua notissima dottrina. In quel che segue ci sforzeremo di rispondere alla legittima domanda.

Anzitutto bisogna sottolineare i meriti fondamentali che Binswanger ha sempre riconosciuto alla psicoanalisi nei confronti della psichiatria classica.

La psicoanalisi infatti — a prescindere dalla sua impostazione teoretica vitalistica-naturalistica-edonistica, su cui specie nelle pagine iniziali del presente scritto si è a lungo insistito — si fonda su di un sistema chiaramente delineato, su dei presupposti e scopi nettamente indicati, a cui inerisce e si riporta un ben definito metodo. Che nei vari aspetti teorici e pratici essa (ove sia assunta criticamente) appaia una dottrina ineccepibilmente unitaria, forse non si può dire; che nel suo irrigidimento dottrinario e metodologico, di gran lunga più volto al rilievo dei contenuti che delle forme, spesso finisca per passar sopra alle discriminazioni nosografiche dell'alienistica clinica, è incontrovertibile (ed è questo un demerito che i clinici ben difficilmente sono disposti a perdonarle). Ma è altrettanto vero che la psicoanalisi — specie se considerata nel suo insieme piuttosto che con puntiglioso e miope riferimento ai suoi particolari — possiede un'unità intrinseca ben più netta di quella che sottende la psichiatria classica. In un lontano scritto, del 1920, Binswanger, appunto riconoscendole questo merito, scriveva: «La psichiatria deve decidersi se vuol restare semplicemente una scienza applicata, un conglomerato di psicopatologia, neurologia e biologia tenuto insieme dal suo compito pratico, o se essa per contro vuol diventare una scienza unitaria».84 Studi essa — continuava — come la psicoanalisi abbia costruito la sua metodologica teoretica, e veda se anch'essa riesca ad edificarsene un'altra altrettanto unitaria, coerente e sistematica.

Se Binswanger non avesse a lungo praticato la psicoanalisi, se non avesse per tanti anni diretto il suo sforzo critico sull'essenza della lezione e dei testi freudiani, probabilmente la stessa Daseinsanalyse non sarebbe stata formulata o. quanto meno, la sua apparizione sulla scena della cultura alienistica avrebbe ritardato di molto.

La psicoanalisi infatti, guardando l'uomo da un suo particolare aspetto e cioè quello delle sue necessità vitali, è pervenuta a quella teoria dell'homo natura che racchiude un principio ordinativo che ha messo in moto la meditazione antropologica di Binswanger. «La teoria dell'homo natura, malgrado sia la quintessenza di ogni teoria che riporta l'essere umano ai meccanismi psicologici che lo sottendono, racchiude un principio metodologico di grande rilievo per la comprensione antropologica. Essa infatti dimostra come si possa esperire l'umano con sistematicità ed ordine allorché si riportino tutti gli aspetti del suo essere un principio unitario. E' perché possiede questo strumento metodologico che una comprensione naturalistica me quella della psicoanalisi può precedere quella propriamente antro- logica. Se questa, a differenza della psicoanalisi, tiene particolare conto Ila molteplicità, delle diverse modalità e strutture dei vari fenomeni colti, psicoanalisi tuttavia può anticiparla, additando e l'ambito della ricerca ;iò che merita di essere ordinato tra i diversi dati ».

Ma a Freud l'antropologia fenomenologica moderna è debitrice di ben altro. Malgrado il suo «naturalismo», egli ha insegnato che l'uomo in genere (e quindi anche il neurotico e lo psicosico) è tale in rapporto al mondo e più ancora in rapporto ai suoi simili. Freud infatti, indicando me tema centrale del lavoro analitico-ermeneutico il conflitto, ha detto definitiva che l'uomo è essenzialmente tale per la sua problematicità.

Per quanto il creatore e costitutore della psicoanalisi si sia, fin dagli inizi e sempre, sforzato d'inserire la sua teoria nello stesso piano delle scienze naturalistiche, accettando di queste l'insegnamento programmatico Fondamentale di considerare l'uomo (questo eterno soggetto!) come un ogetto tra gli altri oggetti semplicemente presenti nel mondo, in pratica li invece ha dimostrato per primo (e forse senza rendersene pienamente conto) che l'argomento della sua indagine non era mai questo nudo soggeto-oggetto, ma piuttosto l'individuo nel-, con-, sopra-, contro-, ecc. il mondo. Infatti l'uomo che in pratica la psicoanalisi considera è pur sempre essere che nella sua esistenza (nel suo essere-nel-mondo e nel suo proprio slancio di sorpassarlo) si pone di fronte ad ogni meccanismo limitativo, sia che questo provenga «da dentro» o «da fuori», dall'«ambiente» o dal suo stesso «corpo» (coi suoi istinti ed i suoi bisogni, colle sue:enziali o attuali capacità e anche colle sue memorie). Perché se l'uomo ha il suo corpo come suo possesso, il corpo con cui si esprime, cioè la sua corporalità (Leibhaftigheit), è ancora lui stesso, sia pure in un particolare aspetto. Se il meccanismo (che pur lo sottende) dice di no all'uomo, a dir sì all'uomo è la sua stessa esistenza nel suo continuo porsi di fronte ï coercizione del meccanismo.

Altro grande merito che Binswanger riconosce alla psicoanalisi è quello aver indicato la necessità di approfondire al massimo, senza reputarsene i completamente soddisfatti, la storia interiore dell'individualità presa analisi, e di aver dettato delle norme preziosissime per la raccolta euristica dei dati che vi si riferiscono. Ma non basta. Solo dopo Freud si è adeguatamente riconosciuto quale importanza si debba ascrivere alla produzione onirica dell'esaminato, alle espressioni della sua libera fantasia, agli errori ed agli «atti mancati» della sua vita ; solo dopo Freud si è riconosciuto quanto rivelatori possano essere i "dati raccolti su questa via (e che prima di lui erano ritenute delle irrilevanti inezie) per la conoscenza profonda di un altrui.

La psicoanalisi in definitiva non prende in considerazione che uno solo dei diversi modi in cui può progettarsi un'individualità, e cioè l'essere-come-natura. In questa sua irrigidita autolimitazione teoretica, si comprende assai bene come per essa assuma fondamentalissima importanza la nozione di ripetizione. Per Freud infatti, e solo per dare un esempio, i sintomi neurotici non sarebbero che delle «camuffate» ripetizioni di complessi infantili «fissati», cioè irrisolti. Il contenuto manifesto del sintomo trarrebbe spiegazione della sua assoluta o relativa assurdità dal significato latente ed «inconscio» che gli inerisce, e che l'analista ha il compito di portare (con una particolare e cautelosissima tecnica) alla coscienza del-l'analizzato. Per Freud dunque il sintomo neurotico non è che l'espressione della determinazione creaturale di quel certo individuo, non parla certo della sua creatività. Il sintomo, per lo psicoanalista, non esprime dunque in sostanza alcun novum; nel suo significato «reale» è mera ripetizione. «Freud in ogni metamorfosi umana, in ogni evoluzione vede costantemente la forma originaria dell'istinto stesso quale fattore indistruttibile ed onnipresente di qualsivoglia accadere»...; «nella sua dottrina egli pone l'accento non sul vario dispiegarsi dell'esistenza ma su ciò che nel corso del suo dispiegarsi resta identico, cioè l'istinto»,

L'esistenza «ridotta» nel piano della necessità meccanica delle pulsioni istintuali porta a vedere soltanto la paleo-forma, la morfé della pura vitalità dell'uomo. Ora questa morfé se è considerata come inscritta nel piano dei meccanismi vitali della creatura non può che ripetersi, giacché il meccanismo non crea nulla di nuovo, non è mai creatore. Ecco perché la psicoanalisi non può non indulgere al principio della ripetizione.

Ora se l'uomo-natura di Freud è la costanza unicategoriale (che variamente si ripete nell'evoluzione) della sua fondamentale istintualità, l'uomo esistenza di Binswanger e della Daseinsanalyse è indicato nella multicategorialità del suo storicizzarsi, del succedersi in diversi modi di esistere (Daseinsformen). «L'antropoanalisi addita (propriamente) l'umano nel meta delle sue metamorfosi, nel trans delle sue trasformazioni: sono questi meta e questi trans che parlano della sua intrinseca possibilità di decisione (Entscheidung), in breve della sua umanità».

L'essere-nel-mondo si riporta al poter-essere (Seinkönnen) dell'individuo come singolarità irrepetibile, come autentica esistenza; oppure anche al consenso-d'essere (Seindürfen), cioè al suo poter-essere incondizionatamente accolto nella patria dell'amore e dell'amicizia o in quello della fiducia in una responsabilità liberamente scelta; oppure anche, infine, al suo esser- costretto-ad-essere (Seinmüssen) in uno dei tanti modi della costrizione (tra cui i più radicalmente «disgraziati» sono quelli delle malattie mentali, in cui la presa da parte del mondo si esercita senza reciprocità sull'individuo).

La psicoanalisi in definitiva non considera che uno di questi modi di essere; e precisamente quello dell'essere costretto, dominato, travolto, reietto, ecc. dai propri istinti.L'antropoanalisi per converso prende in considerazione tutte le maniere in cui nel corso dell'esistenza si progetta la presenza, tutte ritenendole rivelatrici del «chi» preso in esame. Essa pertanto non postula alcuna gerarchia tra «mondo» e «mondo» ; pregiudizialmente anzi si preclude anche solo di affacciarla, ritenendola, nel piano da lei stessa scelto — e cioè il piano antropologico — un ingannevole miraggio suggerito dalla nostra propensione all'esplicitazione causale scientistica. Nessuno dei «mondi» con cui si progetta la presenza è pertanto un mondo fittizio; ognuno ha il suo linguaggio inderivabile da quello di altri, ma ognuno di questi linguaggi a sua volta allude e denuncia direttamente la presenza che con essi e per essi si esprime; la realtà dell'umano sta in ognuno. L'antropoanalisi quindi a differenza della psicoanalisi non li riduce nel piano concettuale di qualsivoglia teoria; è chiaro quindi ch'essa si estolle (perché non le crede possibili) dalle spiegazioni causali degli Erlebnisse in cui si dispiega l'esistenza. Ogni riduzione ed ipostatizzazione teoretico-spiegativa non può infatti che destituire i fenomeni della loro fenomenicità, i modi della loro modalità.

Il suo metodo quindi non può essere che quello di rilevare gli aspetti costitutivi ed essenziali delle varie maniere di essere, delle varie forme con cui si pone la presenza, in definitiva la loro specifica categorialità.

La psicoanalisi ha indicato alcune delle modalità fondamentali con cui creaturalmente (e spesso somatologicamente) si esprime l'uomo; ed è anche questo un suo merito incontrovertibile. Basti qui ricordare la nozione di oralità, Nel corso dell'esistenza innumerevoli sono le manifestazioni che si riferiscono alla bocca. Questa non soltanto, come nel bambino, succhia ed inghiotte il latte materno, oppure lo sputa, erutta e vomita, oppure afferra e morde il capezzolo materno, oppure anche sorride di piacere o urla e strepita. Nel corso dell'esistenza e nelle sue varie modalità di progettarsi, l'oralità si manifesta anche altrimenti: si dischiude attonita di fronte a qualche cosa di meraviglioso o si serra spasmodica nella rabbia, non «sente» soltanto l'amaro e il dolce dei cibi ma anche l'amarezza o la dolcezza di questa o di quella situazione, e via dicendo a lungo. Le innumerevoli espressioni del linguaggio che si riferiscono alla bocca sono metaforiche solo e fin quando si voglia assegnare un'assoluta preminenza al fisico di fronte allo psichico; in realtà esprimono direttamente e meglio di qualsivoglia esplicitazione razionale e, quel che più conta, con puntualissima immediatezza le nostre condizioni umane.

E' ovvio che nel corso di una psicoanalisi espressioni dell'oralità vengano rilevate ad abundantiam. Nessuno contesta che, per esempio, uno che fa il gesto di inghiottire di fronte ad una situazione in cui egli viene ad acquisire, si supponga nel campo del prestigio, una grossa soddisfazione, assomigli al poppante che inghiotte soddisfatto una grossa succhiata di latte; o che uno che fa il gesto di sputare di sdegno di fronte ad una situazione per lui disgustante, assomigli al bambino che sputa un cibo non gradito; e via dicendo. Che significa tutto ciò? Soltanto questo: che, sia nel bambino che nell'adulto, all'oralità inerisce o il significato di introitare o quello di espellere. Ora però — e questo è uno dei punti critici della dottrina psicoanalitica — l'unità di significato generale tra due contenuti viene riportata al principio xli causalità. E più precisamente: tra due contenuti riportabili ad un unico significato generale che li trascende, quello che cronologicamente viene prima è reputato causa di quel che viene dopo. In altre parole la psicoanalisi, per arbitrio puramente dottrinario (perché non ha, in questo, alcuna possibilità di validarsi), rilevata l'unità di significato generale di due contenuti, ritiene come causa quello che nel tempo cronologico viene prima e quello che viene dopo un effetto o, per meglio dire, una ripetizione camuffata dell'antecedente. A prescindere da questo arbitrario e dogmatico enunciato teoretico, questa identificazione non dice niente, assolutamente niente, della creatività del singolo, per cui egli dà continuamente dà nuova forma alle manifestazioni con cui si rivela, pur valendosi dello stesso mezzo di espressione somatologica; nella fattispecie, della nuova forma con cui, pur valendosi dell'uno o dell'altro dei due significati generali che all'oralità ineriscono, esprime col mezzo espressivo della bocca un modo di essere del tutto diverso da quando era bambino.

Generalizzando questa critica a tutta la psicoanalisi ed in particolare alla sua nozione di eros, con Binswanger diremo: «Uno è sapere che all'inizio di una storia interiore di una vita neurotica ci sono state delle esperienze e delle fantasie a contenuto erotico, altro è formulare — sulla scorta di una speculazione meramente teoretica — l'enunciato evoluzionistico che l'erotico è la base genetica di tutte le successive forme con cui si esprime l'esistenza di quel certo individuo».

Malgrado queste critiche di fondo alla teoria psicoanalitica, è ben difficile disconoscere a Freud le sue straordinarie capacità di addentrarsi o di esplorare lo sterminato regno dell'umano, in una parola, le sue eccezionali doti di antropologo.

Egli scriveva in un passo famoso (Ges. Werk, XII, 387): «La mia psicologia non è tutta la psicologia; di certo però la sottostruttura e forse il suo fondamento». Più volte ebbe poi a dire che il suo sforzo non era che l'inizio e che restava agli altri moltissimo da fare. Si chiede Binswanger, in uno dei suoi scritti più limpidi, se quest'opera di esplorazione integrale dell'umano noi dobbiamo compierla con Freud o senza Freud. Si è detto in una pagina precedente come lo scandalo attorno al nome del creatore della psicoanalisi continui, come del resto anche il presente scritto sta a testimoniare; ed è ora uno scandalo ben più profondo di quello per così dire epidermico che sconvolse innumerevoli «persone dabbene» della sua epoca, in quanto si riporta alla ribellione dell'uomo che, nel naturalismo freudiano, vede negletto il suo esser tale, cioè la sua umanità. Tutti sanno poi che gli psicoanalisti chiamano questo sdegno resistenza: il mondo della cultura così si divide di fronte a Freud in due grandi schiere, quella dei votati all'encomiastica e quelli dei votati all'iconoclastica.

In vita Freud vide nascere tra i suoi stessi allievi degli oppositori, con cui fu del resto implacabile: ADLER, per esempio, che rigettò radicalmente le sue basi teoretiche, sostituendo al principio del piacere il principio del prestigio (Individualpsychologie). Altri allievi (come ad es. Otto RANK) postularono delle nozioni che Freud non accettò completamente, pur riconoscendole legittimamente aderenti al suo piano di ricerca. Altri si portarono fuori di quella concretezza palpabile che Freud predilesse, e restarono un po' a latere (come ad es. JUNG). Altri fecero delle aggiunte che il Maestro accolse ed anche rielaborò. Altri infine lo ripeterono e lo ripetono con assoluta fedeltà: sono questi gli psicoanalisti cosiddetti ortodossi.

Tra quali di queste categorie può porsi la Daseinsanalyse? Essa è in opposizione al «naturalismo» in generale, nel nome soprattutto di Husserl: al «naturalismo» tout court, non a quello di Freud in particolare, ch'è un naturalismo sui generis, arduo a definirsi ineccepibilmente tale quando il teorico della libido cede il passo al pratico del transfert.

L'indirizzo antropologico nel campo della psichiatria vuole indicare quale sia il piano adeguato alla comprensione dell'uomo: ed è un piano che non è né quello del biologismo nataralistico né quello della cosiddetta scienza dello spirito. Esso si propone di indagare gli aspetti ontici, fattuali dell'esser-uomo, le fondamentali forme del suo essere-nel-mondo, come la presenza si declini e si progetti nei suoi vari modi, inclusi tra questi quelli dell'alienità (giacché neanche in questi, pur nell'estrema e talora radicale costrizione in cui l'uomo viene a trovarsi, egli rinuncia alla sua originaria tendenza creativa, al suo essenziale attributo di weltbildend).

La malattia mentale pertanto non viene più considerata come un mero accadere «naturale», ma intesa e descritta a partire dalle possibilità originarie dell'essere-uomo, in base alle modalità dell'essere-al-mondo. Giacché «esser-uomo è assai più che vita, più ed altro che istintualità, attività cerebrale, organismo, eccetera: la sua realtà è pertanto molto meglio indicabile e comprensibile come Dasein», il cui essere è l'esistenza.

A differenza della psicoanalisi che, al pari di tutte le scienze naturalistiche, oggettivizza l'uomo e lo considera come uno dei tanti oggetti semplicemente «presenti» nel mondo, l'antropoanalisi, saldamente ancorata al piano fenomenologico, considera precipuamente il fenomeno basilare del suo essere-nel-mondo e le sue varie configurazioni modali. Non crede, si ripete, che per l'uomo sia valido il principio di causalità; o per dir meglio, considera l'ipostatizzazione dell'umano nel piano della causalità un metodo che alla fine non può che depersonalizzarlo, o meglio, disumanizzarlo. La psicoanalisi erigendo l'homo natura a giudice di tutti gli altri modi con cui può progettarsi l'essere-uomo, non può portare infatti che ad una sua riduzione e ad un livellamento delle tante e tante e così diverse categorialità che ineriscono alla possibilità del suo essere ed in cui il suo essere si progetta.

Per porsi però nel piano antropologico-fenomenologico «bisogna rinunziare alla infeconda contrapposizione tra moventi 'esteriori' ed 'interiori', tra 'destino' e 'costituzione'». (Si veda in proposito quanto si è detto circa il problema del nesso tra accadimento ed Erlebnis). «Ne segue pertanto che mentre la Daseinsanalyse può ampliare ed approfondire i concetti fondamentali della psicoanalisi, la psicoanalisi per converso non può che restringere ed appiattire le diverse forme che l'antropoanalisi rileva ed addita ».

Freud ha indicato senza mai stancarsi quale importanza abbiano nel bambino i rapporti colla madre e col padre, e come questi giochino un ruolo fondamentale per la fissazione della libido e comunque nel direzionare o distorcere la sua «normale» evoluzione. Ma accanto al fattore ambientale — scrivevo in un mio vecchio lavoro 94 — Freud non ha potuto negare l'esistenza di un fattore costituzionale determinante (di una disposizione, dunque): i nevrosici si potrebbero scalare tenendo presente il criterio del rapporto tra l'uno e l'altro fattore, mettendo all'estremità della serie quei nevrosici in cui il primo è assolutamente prevalente sul secondo, ed all'estremità opposta quegli altri, al contrario, in cui è prevalente il secondo sul primo. Non ha mai potuto negare il fattore costituzionale (la disposizione) in quanto impossibilitato in definitiva a rispondere adeguatamente all'ovvia obbiezione per cui mentre eguali e parimenti intense esperienze infantili portano un certo soggetto, in un domani più o meno remoto, alla nevrosi, non agiscono affatto nello stesso senso in un altro. Dunque perché una «fissazione libidica» abbia luogo, non basta un fat-tore determinante ambientale, ma occorre eziandio una determinante disposizione originaria.

L'antropoanalisi riaffaccia questo problema. Si propone essa di precisare quale sia la modalità di fondo (Daseinsgrund) che in psicopatologia genericamente si designa come disposizione individuale. Questo problema, nei confronti della psicoanalisi, può esser formulato anche nei seguenti termini. Si chiede quale categorialità di base faccia sì che certe esperienze infantili (certamente di somma importanza per un bambino, ma in genere ubiquitarie nel decorso della pristina infanzia) possano «fissarsi» al punto da impedire o distorcere radicalmente in una certa e non altra persona la normale «evoluzione della sua libido», al punto che tutta la sua futura esistenza ne risulti impregnata. In altre parole: si chiede perché mai certi motivi, in genere intercorsi nei primissimi tempi di una vita, in funzione di tale fondo possano risultare all'analisi dei motivi cardinali, non solo motori ma addirittura moderatori, in breve dei motivi informanti di tutta un'esistenza.

Con questi interrogativi l'antropoanalisi porta così la sua domanda sull'istanza fondamentale che precede gli stessi «processi di fissazione» di Freud.

Per finire. Potrà applicarsi in pieno all'alienistica questa rivoluzione metodologica? Aggiungerà semplicemente qualche cosa alla psichiatria impostata naturalisticamente o la trasformerà in modo radicale?

«La Daseinsanalyse... può precisare e descrivere le trasformazioni.dei modi di essere, come cioè si trasforma la presenza; ma non possiede alcun criterio per giudicare della morbosità di tali trasformazioni. Il giudizio di morbosità è possibile invece sulla base di come è concepita e si concepisce, sia come teoria che come sistematica ed esperienza pratica, la psichiatria clinica. Non pretende e non può sostituirsi alla psicopatologia». Non presume di sostituirsi ai Griesinger ed ai Kraepelin, ai Wernicke o ai Bleuler ; non presume neppure di far delle «aggiunte» a ciò che i clinici hanno rilevato e concettualmente circoscritto «nel loro campo». Ma se non ha queste presunzioni, d'altra parte ha la certezza della validità e della necessità del suo compito. «Sa» di essere, anzitutto, uno strumento sicuro per riconoscere i limiti ed il significato di ogni interpretazione riduttiva, nel piano di questa o di quella teoria ; «sa» che attraverso il suo sforzo, metodicamente ordinato, di penetrazione fenomenologica «malattie mentali» e «sindromi» e «sintomi», «caratteri» e «temperamenti», ecc. possono trovare un notevolissimo approfondimento; «sa» che illuminando l'essenza modale di un quadro clinico e quest'essenza rilevando in ogni suo aspetto particolare, può indicarne l'intrinseca unità e contemporaneamente il suo significato propriamente antropologico (al di là e nonostante le determinazioni creaturali che lo sottendono).

Essa schiude un'altra via al comprendere: una via che, per quanto ardua, si palesa ogni giorno più capace di portare la comprensione anche dove il suo accesso sembrava vietato, e cioè nei misteriosi mondi — lontani e vicini ad un tempo! — dell'alienità.